venerdì 29 giugno 2012

Comme un chef. Jean Reno e la cucina molecolare.


Ho ceduto alla tentazione.
A pochi giorni dalla sua uscita nelle sale italiane, mi sono visto Chef di Daniel Cohen. Che poi, nell'originale francese, sarebbe "Comme un chef" ma, chissà perché, in Italia abbiamo il vizio di cambiare i titoli.

Il film era stato un po' troppo pubblicizzato, per i miei gusti. Ma, considerando che Jean Reno è tra i miei attori preferiti e che, per una sorta di deformazione professionale, non mi perdo un film di cucina, va da sé che prima o poi dovevo vederlo.

Ora, non sono qui a improvvisarmi critico cinematografico. Se mi trovo a scrivere è perché, a metà pellicola, ho avuto un sussulto alla prima comparsa dell'espressione "cucina molecolare".

Era l'autunno di dieci anni fa, quando io ed Ettore ci siamo trovati tra le mani quelle due parole, che messe insieme suonavano così strane, ed abbiamo deciso di adottarle come marchio per un'esperienza nuova e provocatoria. Poi si sa com'è andata. E' arrivato il famigerato progetto INICON ed i media si sono dilettati ad identificare la cucina molecolare con l'utilizzo malvagio e perverso degli additivi industriali.

Però, fa sempre uno strano effetto ritrovare sulle labbra di attori famosi le parole
che tenemmo a battesimo in tempi lontani e non sospetti.

Per il resto, purtroppo, il film segue stereotipi da rivista da sala d'aspetto.
Effetti speciali, spaghetti blu, cubetti di concentrato d'anatra che per errore sanno di pesce. E poi, l'azoto liquido, ovviamente. Messo su una flûte di champagne, per produrre la solita spettacolare condensa. Ma chi lo serve veramente l'azoto liquido sullo champagne? Anni fa, in un bar specializzato di Torino, avevo messo a punto l'assenzio all'azoto liquido. Ma lo spirito era molto diverso. Non si trattava di puro spettacolo: i fumi umidi che salivano dal bicchiere portavano alle narici l’aroma d'assenzio. Si inspirava voluttuosamente quel fumo profumato, per rivivere in chiave moderna il mondo decadente dei bevitori della Fata Verde.

Lì, nell'improbabile clima asettico di un ristorante pseudo avveniristico, il gioco dei fumi dell'azoto era a metà strada fra il kitsch e il demenziale.  Meno male che i grandi ristoranti sperimentali sono diversi! Probabilmente, lo scenografo il Bulli non l’hai mai visto, nemmeno in foto. Per non parlare della macchietta dell’esperto spagnolo di cucina molecolare. Che non assomiglia lontanamente a nessuno degli “esperti” che ci sono in giro, spagnoli o no. E che continua a commettere errori impossibili e viene presto allontanato. L’unica suggestione viene dal “cuoco molecolare”, che sembra un morphing tra Gordon Ramsay ed Heston Blumenthal.

Il messaggio, comunque, all’inizio sembra chiaro: tutte porcherie industriali, per favorire i biechi interessi commerciali.
Poi, la durezza pare sfumare, per arrivare ad un finale a tarallucci e vino, tra buoni sentimenti e pace fatta tra tradizione e innovazione.

Che dire? Jean Reno resta un grande. Grandissimo. Almeno dieci spanne sopra i protagonisti caricaturali di certe analoghe serie tv nostrane.
Il film, grazioso, probabilmente non lo riguarderò.
In compenso, per rifarmi il palato, il giorno dopo mi sono visto per la decima volta “L’aile ou la cuisse”, con Louis De Funès e Coluche. Tutt’un’altra storia!

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Chi vuole approfondire (e conosce l’inglese) può scaricare gratuitamente, dal sito della rivista EMBO Reports, l’articolo che ho pubblicato lo scorso anno sulla storia della cucina molecolare.
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Jean Reno nei panni di Alexandre Lagarde


Michaël Youn, alias Jacky Bonnot, insieme all' "esperto spagnolo di cucina molecolare"
1976. Louis De Funès e Coluche in "L'aile ou la cuisse" ("L'ala o la coscia?")

sabato 23 giugno 2012

San Giovanni, i tortelli, la rugiada


-Annegati nel burro e asciugati col formaggio! - Mario ripeteva queste parole con gli occhi terrorizzati, cercando di spiegarci perché avrebbe evitato volentieri la tortellata di San Giovanni. Per lui, ascetico fisico teorico, il cibo era un'ineluttabile necessità. E non riusciva proprio a capire come potessimo costruire un congresso scientifico intorno a una tradizione gastronomica. Ma la verità era quella. Il convegno nazionale di fisica statistica era nato così. Un gruppo d'amici che decide di ritrovarsi insieme, per parlare di scienza di giorno, e godersi tortelli e rugiada, in campagna, la sera.
La sera del 23 giugno, ovviamente, quando tutta la provincia di Parma si sente in dovere di lasciare l'afa domestica e riunirsi in tavolate campestri, aspettando che il fresco della notte più breve dell'anno faccia finalmente condensare sui prati l'umidità soffocante dell'aria per produrre l'agognata rugiada. E, nell'attesa, si mangiano i tortelli.

I tortelli d’erbette (al plurale, perché le erbette in dialetto hanno senso solo al plurale) non hanno nulla a che fare con i più celebri tortellini che si mangiano a Modena e Bologna. Differiscono innanzitutto nella forma. I nostri sono rustici rettangoli di circa 4-5 centimetri, con tre lati seghettati ed uno ripiegato. Il ripieno ne rigonfia il centro verso l’alto, aumentandone l’asimmetria. Ho sempre pensato che una parte del loro fascino stia proprio in queste piccole irregolarità, che li rendono diversi uno dall’altro. Sono grandi, e nel piatto li puoi contare: sette, otto, nove, dieci… Li puoi scrutare uno ad uno prima di affrontarli. Sono grandi, e per mangiarli devi tagliarli in due con la forchetta, e metterne a nudo il ripieno bianco punteggiato di verde. Troppo grandi per nuotare in una salsa fluida e sgusciare uno sull’altro. Si adagiano sul piatto e lì restano, tranquilli, statici, orizzontali, finché la tua forchetta non li va a cercare. Un sugo fluido cadrebbe inesorabilmente sul fondo, denudandoli. Per questo bisogna rivestirli di un condimento ruvido, che li avvolge come un intonaco stuzzicante. Un sospensione densa di parmigiano grattugiato in burro fuso, diremmo nel linguaggio scientifico di oggi. I nostri vecchi erano più bravi: “annegati nel burro e asciugati col formaggio”. Appunto.

Il formaggio, va da sé, è quello che fuori dai confini si chiama Parmigiano Reggiano. E che qui, fin da bambini, impariamo a chiamare semplicemente “il formaggio”. Così come le erbette non sono generiche erbe, ma solo e soltanto le foglie della bietola. Così come nella Bassa il Po non si chiama Po. Si chiama “il Fiume”. E se chiedete a un contadino di che fiume sta parlando, vi guarda come poveri idioti domandandovi “Ma quanti fiumi vedi qua attorno?”.

Sono la nostra bandiera. La ricetta della tradizione. E, proprio per questo non sono una ricetta, ma mille e mille ricette diverse, declinate secondo le sfumature dei paesi, delle famiglie, delle cuoche. “Come li fa i tortelli tua mamma? Tua nonna? Tua moglie?”.
Piatto femminile, per mani delicate. Oggi le cuoche di casa vanno scemando e molti si rifugiano nelle gastronomie (nel senso di negozi…). Due anni fa, la Gazzetta di Parma ebbe l’idea di inserirmi in una simpatica giuria che, assaggiando alla cieca, doveva classificare i tortelli delle gastronomie della città. Fui troppo selettivo… (taccio il resto). Ma che ci devo fare? Sono abituato a mangiare bene. E quando li voglio buoni li facciamo in casa. Con il burro e il formaggio migliori, che andiamo a prenderci nel caseificio di montagna. E’ importante il formaggio. Non solo perché sa di formaggio. Contiene la giusta dose di glutammato di sodio, e ingentilisce e migliora il sapore, checché se ne dica. E poi la pasta. La voglio impastare a mano, per un’ora. A macchina è diversa. Scientificamente diversa. E qui non ammetto discussioni. Il glutine si rinforza dove schiacciamo. La macchina schiaccia a caso. La macchina spara nel mucchio. Le mani toccano, capiscono, agiscono dove serve. La mia pasta fatta a mano è uniforme, tenace sotto i denti anche se la tiri sottile. Col mattarello. Perché, con la macchina, per stendere devi girare, ed è la distanza fra i rulli che decide la compressione. Col mattarello, sei libero di scegliere pressione e velocità. E la sfoglia è diversa. L’abbiamo perfino simulato al computer. Chissà, magari qualche volta lo pubblicheremo…

Per ora pubblico una piccola chicca. La ricetta di mia madre, copiata tale e quale dalla pagina scritta a mano del quadernetto dalla copertina arancione.


 PASTA TORTELLI:  700 gr farina, 6  uova, Sale , Acqua q.b.

RIPIENO TORTELLI: 350 gr ricotta nostrana, 250 ricotta romana , 350 gr formaggio grana, 2 cucchiai di mascarpone, 1 mazzolino di erbette, 5 o 6 tuorli, Sale, Noce moscata.

Scandalizzati dall’imprecisione delle dosi? Il bello è proprio lì. I pasticceri bravi le uova le pesano. I pasticceri bravi hanno la fortuna di lavorare in locali climatizzati a temperatura e umidità controllate. Una cuoca piemontese una volta mi confessò che la quantità di uova che metteva nei tajarin dipendeva dal tempo. “Se piove ce ne vanno meno”. “Signora, lei ha gli occhi dello scienziato” - le dissi. Quando l’aria è umida, la farina, fine e igroscopica, è molto più idratata.

E il mazzolino d’erbette? Quello non si pesa. Si tolgono le foglie. Si fanno bollire. Si strizzano e se ne prendono due pugni. La mano della cuoca fa la differenza!
Forse non vengono mai esattamente allo stesso modo. Ma il fascino della cucina è anche questo. Ogni volta che mi siedo alla tavola di un grande cuoco ed ordino un piatto già conosciuto, mi chiedo: “Come mi stupirà stavolta?. Come quando  ascolto la musica dal vivo…

E stasera, è ovvio, si va in campagna.
Come saranno i tortelli quest’anno?


"Annegati nel burro, asciugati col formaggio..."


lunedì 18 giugno 2012

Il latte vero


Quand’ero bambino, passavo le estati in Tirolo. 

In una graziosa casetta che non esiste più, demolita e ricostruita più grande e moderna. In un villaggio che non è più lo stesso, devastato dal turismo invernale di massa. Ai piedi di una montagna alta e verde, che ora è irriconoscibile, violentata e umiliata dagli sventramenti di piste e impianti di risalita.

Sul far della sera, uscivo dalla casetta con il pentolino da un litro ed entravo nella stalla del vicino per prendere il latte.

-Heute brauchen wir ein Liter Milch!- era la frase magica. Il contadino mi sorrideva, si avvicinava al secchio e riempiva il pentolino. Oppure, se non l’aveva ancora fatto, mungeva una mucca e mi offriva la primizia della serata.

Il profumo che emanava da quel secchio mi è tornato prepotentemente alla mente l’altro giorno, mentre Serena, una delle mie studentesse, presentava una bella relazione sul latte dal punto di vista della fisica della materia soffice.

Serena si era preparata, come è normale, su libri di tecnologia degli alimenti, che hanno una visione del cibo piuttosto diversa da quella della gastronomia. 
Così, quando parlando dell'omogeneinizzazione del latte, nell'elenco dei vantaggi che comporterebbe, ha citato la “maggiore palatabilità”, mi sono sentito ribollire il sangue nelle vene.

In primis perché detesto il termine1.  

E poi, perché preferisco di gran lunga il latte non omogeneizzato e non pastorizzato. 

In altre parole, il latte vero. 

Sì, perché, lasciando perdere i gusti personali (dei quali “non est disputandum”), il punto cruciale è che tra il latte che esce dalla mucca ed il latte omogeneizzato, dal punto di vista fisico, la differenza è enorme.

Il processo di omogeneizzazione ha poco più di cent’anni. Il suo inventore, il francese Auguste Gaulin, lo presentò all’esposizione universale di Parigi nel 1900. Consiste nel forzare il latte, attraverso alte pressioni, a scorrere in tubi molto sottili, con l’effetto di rompere i globuli di grasso in parti finissime, che si disperdono uniformemente.  Il risultato che ne consegue, che è poi l’unico vero scopo per cui il processo fu inventato, è che l’emulsione di grasso in acqua si stabilizza e la panna non affiora più spontaneamente.  Quel che succede è che i microglobuli prodotti vengono circondati da proteine e quindi appesantiti. Le proteine inoltre contribuiscono a tenerli legati all’acqua. L’energia di legame è proporzionale alla superficie, e tanti globuli piccoli hanno una superficie molto maggiore di pochi globuli grandi. Alla fine, il maggior peso e la maggior superficie riescono a vincere la spinta d’Archimede, che porterebbe il grasso, più leggero dell’acqua, a galleggiare.

Il prezzo da pagare per tutto questo, però, è altissimo. Il latte omogeneizzato è una specie di latte tritato finemente. Sta ala latte vero come un hamburger sta a una bistecca. E se ci guardiamo bene dal chiamare mela un omogeneizzato di mela, allora non dovremmo chiamare latte il latte omogeneizzato. Purtroppo circola una strana convinzione, in base alla quale, se un prodotto mantiene la stessa composizione chimica dopo la lavorazione, allora è da considerarsi lo stesso prodotto. Se così fosse, invece di gustarci una maionese, potremmo tranquillamente bere un bicchiere d’olio con un tuorlo, sale e aceto…

Il latte vero, in bocca è un’altra cosa. Ma è un’altra cosa pure nella pentola e sul fuoco.

Frau Marianne alla sera metteva un cucchiaio di succo di limone nel pentolino appena intiepidito. La mattina dopo ne estraeva un bel formaggino fresco e corposo, che usava per preparare la sua fantastica Topfentorte. Provate a mettere il limone nel latte omogeneizzato. Ne esce una cagliata debole debole e polverosa. Se lo mettete nell’UHT, non esce proprio niente.

Quando lo facevi bollire, quel latte, iniziavano i giochi pirotecnici… Prima si formava la pelle in superficie. Poi all’improvviso si metteva a salire e traboccava dal bricco. Dovevi essere veloce a spegnere il fuoco. Oppure dovevi munirti di quegli appositi dischi di vetro, che si posavano sulla superficie e riuscivano a tenerlo a bada  più a lungo.

Quella bella pelle, spessa e corposa, il latte omogeneizzato, non la fa2
Le proteine che la formano sono troppo impegnate a circondare i microglobuli di grasso per poter coagulare abbondantemente in superficie. Eppure quella pelle è buona. Nel Giappone antico la si disponeva a strati, come in una millefoglie, e lasciandola indurire si otteneva il So, con cui poi si produceva un pregiatissimo formaggio, il Daigo. La cucina popolare francese abbonda di gâteaux à la peau de lait. Ma, anche oggi, i grandi maghi dei fornelli non la disdegnano. Vi dicono qualcosa i ravioli de piel de leche di Ferran Adrià, la tortilla de piel de leche di Paco Roncero, la pelle di latte con aglio caramellato di René Redzepi?

La differenza esiste. Scientificamente. La scelta è questione di gusti. E qui mi fermo. Ma a chi, come me, adora il latte crudo, non omogeneizzato e non pastorizzato, regalo la ricetta del gelato estemporaneo di latte vero, che misi a punto nel 2004 e che, in questi giorni di caldo africano, è particolarmente piacevole.
Anzi, ve ne do due versioni.

Gelato estemporaneo di latte vero

Ingredienti

Versione “leggera”

1 l di latte fresco crudo, non omogeneizzato e non pastorizzato
1/2 l di panna fresca d’affioramento non pastorizzata
200 g di zucchero
1 pizzico di sale


Versione “gourmet”

1 l di latte come sopra
7 dl di panna come sopra
250 g di zucchero
1 pizzico di sale


Preparazione (per entrambe le versioni)
Sciogliere completamente, a freddo, lo zucchero nel latte
Aggiungere il sale e farlo sciogliere
Unire la panna, a freddo, mescolando fino ad ottenere una miscela omogenea
Versare l’azoto liquido e mescolare con la frusta fino ad ottenere la consistenza desiderata.



Buon appetito!




La pelle del latte vero




Tentativo di pellicina su latte omogeneizzato

Assenza di pellicina su un altro tipo di latte omogeneizzato

 Ferran Adrià: Ravioli di pelle di latte e gelatina di basilico con zuppa di formaggio Idiazabal



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Note
1E' tremendamente cacofonico. Un barbarismo derivato dall'inglese palatability, che non si trova sui migliori dizionari della nostra lingua, e si può rendere benissimo con gradevolezza. Se guardate l'Oxford Dictionary, alla voce palatability troverete: “adjective (of food or drink): pleasant to taste. Ex. a very palatable local red wine”. E se proprio vogliamo andare sul tecnico, potremmo dire “consistenza piacevole”, che è meglio di tanti giri di parole.  Tra l'altro, mi è capitato sotto mano una sorta di dizionarietto di degustazione, che cita senza remore la parola palatabilità come fosse perfettamente italiana e poi, alla voce testura, parla di un neologismo derivato dall'inglese texture. E qui siamo alla pura follia, perché texture, come l'analogo termine francese e lo spagnolo textura, derivano, ovviamente, dal latino. Così come l'italianissimo testura! Come recita il vocabolario Treccani: testura s. f. [dal lat. textura, der. di texĕre «tessere», part. pass. Textus].

2Nel migliore dei casi, ne forma una blanda imitazione,  sottilissima e fragile.


lunedì 11 giugno 2012

Il vino e la luna


Questa è una storia di tanti anni fa. Dei primi anni novanta, per la precisione, quando nessuno aveva il telefono cellulare. Sulle nostre scrivanie, al posto dei personal computer, c'erano gli schermi monocromatici dei terminali “stupidi” del VAX e il sifone serviva solo a montare la panna.

Dipartimento di Fisica, corridoio dei teorici.

Enrico saluta il suo dottorando Giorgio:
-Oggi vado a casa prima perché devo imbottigliare.
-Oggi? Non si può, c'è la luna sbagliata.
-Giorgio, tu che studi la fase di Berry e le teorie topologiche credi ancora a queste superstizioni da Medioevo??
-Io vivo in campagna...

Qualche settimana dopo Giorgio, dalla porta semichiusa dello studio, intravede Enrico trafficare con una biro intorno al calendario appeso al muro.
-Enrico cosa stai facendo?
-Mi segno le lune...
-Non avevi già imbottigliato?
-Mi sono saltati tutti i tappi e ho trovato la cantina allagata.

Enrico è ancora oggi un eccellente professore di fisica teorica.
Giorgio, dopo aver girato l'Europa con cospicue borse di studio, è un imprenditore di successo.
Io continuo a comprare il vino già imbottigliato.

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Meditazione della settimana:

«Quando lo schema dei teorici vuole imporsi alla natura, il risultato è sempre la rovina e la miseria» (P. Gaxotte)
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Per chi vuole approfondire, all'epoca trovai molto interessante questo libro:

Robert Frederick
L'influsso della Luna sulle coltivazioni
Edagricole, 1982


mercoledì 6 giugno 2012

Gli esperimenti imprevisti


Ci sono momenti meravigliosi in cui mi ritrovo solo in laboratorio.

Attimi inaspettati, regalati da un appuntamento annullato, da un lavoro finito in anticipo, da un impegno posticipato.

Troppo brevi per dare inizio a un nuovo progetto, troppo lunghi per un’attesa oziosa.

E’ allora che nascono gli esperimenti imprevisti: pura improvvisazione, senza una preparazione meditata, senza nessuna aspettativa. Sono la delizia di un ricercatore: nessun burocrate idiota che ti chiede di compilare moduli chilometrici, in cui dichiari cosa vuoi fare, perché lo vuoi fare, cosa pensi di ottenere, attraverso quali tappe e rispettando quali scadenze. Ecco, quelli sono l’incubo di uno scienziato, il lato del mestiere che ti fa rimpiangere di non aver scelto altre strade nella vita.

Ma poi, come per magia, il tuo lavoro ti regala questi momenti d’incanto, e ti ritrovi a fare cose che non avresti mai pensato. Spesso accade verso il tramonto. Indugio un poco a rimirare, dalla parete a vetri, l’orticello delle aromatiche e l’angolo delle patate viola, che mi crescono sotto gli occhi. Poi mi ritrovo ad assaggiare soluzioni di cloruro di magnesio a diverse concentrazioni, o a mescolare i pigmenti dello zafferano con la malva, a misurare l’impedenza complessa del caffè che mi sono appena fatto, a cuocere un pollo col ferro da stiro, o a contemplare lo spettro di Fourier di un grissino che si rompe tra i miei denti.

Se qualcuno entrasse all’improvviso e vedendomi mi chiedesse “Perché fai queste cose?”, non esisterei a rispondergli: “Per vedere cosa succede!”. Non è questo, in fondo, lo scopo più puro e profondo di ogni esperimento?  Il mondo scientifico è molto vario. Per una certa categoria di persone, fare esperimenti significa semplicemente eseguire misure e ottenere come risultato tanti numeri, magari da raccogliere in grafici e tabelle. Altri pensano che la scienza che conosciamo, da sola, sia più che sufficiente a spiegare ogni dettaglio della vita quotidiana e, ovviamente, anche della cucina.

Io non ci ho mai creduto.

Conosco tanta gente che si fida a tal punto di libri e articoli da escludere totalmente la possibilità di ripetere un esperimento per verificare di persona cosa succede. C’è chi arriva a scrivere un nuovo libro parafrasando e ricomponendo pezzi di altri libri. O a fare divulgazione attraverso un giochetto di copia e incolla da testi e pagine web.

A me è sempre piaciuto vedere con i miei occhi.

Toccare con le mie mani.

Ascoltare, fiutare, assaggiare.

Non tanto per amore del dubbio (“Io son come Tommaso e non ci credo finché non ci metto il naso… -diceva una canzoncina della mia infanzia), ma per il piacere di conoscere con tutti i miei sensi. Il piacere di entrare in contatto profondo con il fenomeno da studiare. Il desiderio di non ridurlo a un puro fatto cerebrale. E’ da qui che prende forma quello che mi piace chiamare il subconscio del ricercatore: quell’insieme di esperienze non catalogate, vissute quasi irrazionalmente, che inglobi dentro di te e ti plasmano l’intuito. Possono restare sopite anche per anni. Poi, all’improvviso, di fronte a un piccolo dejà vu, a un indizio nascosto, a una madeleine proustiana, si svegliano e ti parlano, ti suggeriscono cosa devi fare, ti indicano con chiarezza la strada che cercavi nel buio.

Come sarebbe bello se la gente ritrovasse il piacere di osservare e di provare. Se i genietti del copia e incolla si fermassero un attimo e mettessero la mani in pasta. Eviteremmo di leggere in giro mille ricorrenti fesserie. Come la favola del forno a microonde che non scalda l’olio o quella del brodo che risulterebbe identico partendo dall’acqua calda invece che dall'acqua gelida.

Ma, in fondo, chi se ne importa?

Sono qui, nel mio laboratorio luminoso e colorato. Respiro profumi deliziosi che mi fanno sognare. Fuori, il cielo padano mi sta regalando un tramonto da togliere il fiato. E poi, mi aspettano le patatine che ho appena fritto. Nel microonde, ovviamente.


Un momento di contemplazione. Cristalli di sale sul fondo del bicchiere.