sabato 8 settembre 2012

Πάντα ῥεῖ - Riflessioni di tarda estate


La pittoresca valle dell’Ahr, che gli italiani, dal Ventennio, chiamano col nome fantasioso di Aurina grazie a quell’invasato di Ettore Tolomei, occupa l’estremo settentrionale del bacino idrografico dell’Adriatico.

Oltre la catena di montagne e (un tempo) maestosi ghiacciai, che ne chiudono a corona la parte più alta, si apre un mondo nuovo di valli, fiumi e strade, che conducono dolcemente fino a Salisburgo e al Nord più lontano.  

Ora, puoi arrivare fino ai piedi di quei monti percorrendo una comoda strada asfaltata, che termina in un ampio posteggio. Ma, solo qualche decennio addietro, la situazione era diversa. Una stradina stretta e tortuosa correva ai bordi del fiume, traversandolo, verso la fine, su un debole ponte. A fine estate, molto spesso, le piogge gonfiavano le acque, che si portavano via il ponticello, e la parte alta della valle restava isolata per giorni. I turisti erano rari e, bussando alla porta di contadini cordiali, riuscivi a procurarti piccoli gioielli: un vero speck, con due dita di morbido grasso che catturava gli aromi delicati dei legni pregiati dell’affumicatura, e, qualche volta, il Graukäse. Sono sapori perduti della mia infanzia. Adesso i negozi pullulano di ignobili speck magri, prodotti per le dame di città ossessionate dal colesterolo, abituate a cibarsi di salutari schifezze. Il Graukäse, dal canto suo, non è più una rarità. Tradotto letteralmente come “formaggio grigio”, ad uso dei profani, è diventato un presidio di Slow Food nel 2005. E da allora è inflazionato. Lo trovi nei supermercati - fatto che, qualche anno fa, sarebbe suonato come fantascienza – e nei titoli dei libri.  Ma non è più lo stesso.

Il Graukäse lo facevano i contadini, non i caseifici, con il latte scremato che avanzava dalla produzione del burro. Lo lasciavano al caldo per un giorno o due finché non coagulava spontaneamente. Una coagulazione acida, ovviamente, provocata da diversi fermenti, presenti nel latte, nel bidone, nell’aria. Poi rompevano la cagliata con un cucchiaio o un mestolo e la scaldavano in un paiolo per asciugarla dal siero. Niente termometri: la temperatura, che non supera mai i 55 gradi, si provava immergendo il gomito nudo nel paiolo.  Sembra il ritratto perfetto di prodotto pienamente autoctono. Del territorio. A chilometri zero, come si usa dire oggi, con un linguaggio scialbo che sa di concessionaria automobilistica.

E invece no, perché proprio a questo stadio della preparazione entra in gioco l’ingrediente magico, il jolly, il deus ex machina senza il quale il Graukäse non si fa. Senza il quale non si fa lo speck, e nemmeno i crauti. E’ lui, l’oro bianco degli antichi. Il sale, di cui, tra i monti della valle dell’Ahr, non c’è traccia.

La valle, a dire il vero, era celebre per le sue miniere. Non d’oro, come il nomignolo tolomeico lascerebbe supporre, ma di rame. Miniere di rame pregiato, fonte di lavoro per gli uomini del luogo, finché, alla fine dell’800, non dovettero chiudere, vinte dalla concorrenza cilena. Per evitare il tracollo della piccola economia locale, i valligiani si inventarono nuovi mestieri: gli uomini a intagliare il legno, le donne a lavorare al tombolo a fuselli. Nacque così la tradizione dei pizzi e delle sculture in legno, che oggi attira e seduce i turisti. Nacque non nella notte dei tempi, ma poco più di un secolo fa.

Circa cent’anni prima, nascevano altri piatti della tradizione locale, quando tra quei monti arrivò, sponsorizzata da Parmentier, la patata, e divenne parte dell’alimentazione quotidiana molto più del pane, che, come abbiamo visto, si preparava solo poche volte all’anno.

Ma anche le patate, è difficile mangiarle senza sale…

L’oro bianco non era poi troppo lontano. C’era l’imbarazzo della scelta: o scavalcare le montagne ed arrivare fino ad Hall in Tirolo, o ad Hallein nel Salisburghese, oppure scendere in Pusteria, infilarsi nella valle di Landro e, traversando il Cadore, arrivare a Venezia. La scelta, in realtà, non la facevano i valligiani, ma i mercanti. Secondo le oscillazioni di dazi e gabelle, stabilivano il percorso più conveniente. Accadeva così che, a volte, il sale marino dell’Adriatico salisse da Venezia alla Baviera. Altre volte, il sale celtico delle miniere austriache scendeva fino al mare. La via più conveniente per i commerci percorreva proprio la valle dell’Ahr. Era la celebre Salzweg, che gli italiani battezzarono anche strada d’Alemagna. Giunta al bacino sorgentizio dell’Ahr, risaliva le ripidi pendici dei monti per arrivare a varcare lo spartiacque al valico del Krimmler Tauern, a 2633 metri sul livello del mare.

Il sentiero lastricato di pietre esiste ancora oggi. Non più frequentatissimo dagli escursionisti, da quando non esiste più il rifugio nei pressi dal valico, ma riscoperto da avventurosi mountain bikers.  Se ci affidiamo alle cronache antiche, però, dobbiamo dedurre che, un tempo, sui pendii selvaggi si doveva stagliare una colonna ininterrotta di uomini e muli, che trasportavano quantità di merci documentate ed impressionanti.

Qualche anno fa, uno dei tanti ministri da cui ci ritroviamo la sventura di essere governati, aveva avuto la bizzarra idea di rispristinare la Salzweg in chiave moderna, tracciando un’ampia autostrada e scavando un bel tunnel sotto al Krimmler Tauern.  Penso che dobbiamo ringraziare l’autonomia del Sudtirolo per averci preservato da una simile impresa.

Il salgemma e il sale di salina sono diversi, molto diversi. Ma i contadini non avevano margini di scelta: nello speck, nel formaggio, nei crauti, nel pane, sulle patate, sulla rara carne, sulle uova, finiva il sale che passava il convento, ovvero che portavano i mercanti. Alla faccia del mito del territorio, la gastronomia è sempre stata anche figlia, suddita e regina del commercio e dei mercati. Le vie delle spezie fin dall’antichità portavano i profumi di mondi lontani, e il buon Escoffier non avrebbe inventato la Pesca Melba, se il generale gourmet Lucio Licinio Lucullo non si fosse portato in Italia il pesco, tornando dalla guerre mitridatiche.

Il Krimmler Tauern, quest’estate, era più secco che mai. Delle cime bianche che, anni fa, lo incoronavano, restava solo qualche piccolo ricordo.  I ghiacciai si stanno sciogliendo. Qualche chilometro più a Est, il fiume di ghiaccio del Pasterze, sul Grossglockner, era sciolto. Il lago di Misurina si stagliava su un Sorapiss totalmente grigio. Il clima, come sempre, sta cambiando. Dopo il picco di freddo ottocentesco, la terra si riscalda. Sul mio balcone cresce l’ulivo. Le mucche sui prati in riva all’Ahr mangiano erbe e fiori diversi da quelli d’un tempo. Il latte è diverso. Il Graukäse è diverso. Il sale, forse, è quello del discount. I maiali sono magri per compiacere le dame di città. E io non potrò mai assaggiare le specialità degli antichi romani a base di laserpicium, perché i nostri avi ghiottoni ne hanno mangiato tanto da farlo estinguere.

Chi se ne importa? Loro non hanno mai potuto provare la delizia del gelato estemporaneo di latte vero

Πάντα ῥεῖ


Graukäse in un abbinamento classico


Vena di salgemma nelle miniere di Hallein


Il Krimmler Tauern oggi.



Strade del sale, strade della Storia.
Estate 1947.
Gli Ebrei sopravvissuti ai Lager nazisti arrivano in Italia
varcando clandestinamente il Krimmler Tauern. 

2 commenti:

  1. quel pane nero della prima foto.........
    QUEL pane.....

    AMMMMMMORREEEE ♥♥♥

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  2. Bellissimo post!
    Sono stato, anni fa, in valle Aurina ma solo due giorni. Era ottobre ma ho fatto lo stesso delle belle passeggiate fino in Austria. Non sapevo nulla della storia che racconti e soprattutto mi è sfuggito il Graukäse che dalla foto sembra buonissimo: devo rimediare.
    Saluti Nicolò

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