domenica 11 novembre 2012

Flashback. La piccola storia ignobile degli additivi.


Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit.

Le parole antiche di Paracelso tornano a campeggiare sul mio schermo, come in quella primavera bollente di tre anni fa. Niente di nuovo, grazie al cielo. Sto solo preparando l’intervento ad un dibattito  che si terrà martedì prossimo, sugli additivi in cucina. Anzi, nella cucina molecolare, come recita il titolo. (Perché tanto in anticipo? – si chiederanno i miei amici più stretti – Tu li prepari sempre la notte prima! - Ebbene, Il perché ve lo spiego alla fine).

Pensavo che i fuochi ormai si fossero spenti. Ma, a quanto pare, l’argomento è ancora ben vivo, se gli organizzatori di una fiera gli dedicano la giornata conclusiva. E allora, rimbocchiamoci le maniche e riprendiamo in mano le vecchie armi. Con la maggiore saggezza, si spera, di chi ha tre anni in più.

Paracelso, all'epoca,  era il mio cavallo di battaglia. Tutti i trattati di tossicologia iniziano con il suo celebrato aforisma: “E’ la dose che fa il veleno”. In realtà, il Nostro è più profondo e sottile. La sentenza, che preferisco citare nella lingua originale, recita qualcosa di diverso, che potremmo tradurre così: “Tutto è veleno, e non esiste nulla che sia privo di veleno. Solo la dose fa sì che il veleno non abbia effetto”.

Non è solo il passaggio storico dalla visione qualitativa a quella quantitativa, fantastica anticipazione della scienza moderna.  E’ un punto di vista disilluso, inclinato al pessimismo, o alla cautela, che si potrebbe applicare a tanti altri soggetti, comprese le parole e le teorie. O alle trasmissioni televisive…

In Italia la storia cominciò una sera di aprile. Un SMS sibillino del mio amico Andrea Grignaffini: “Hai visto che brutto scherzo hanno giocato a Massimo?”. Ovviamente non avevo visto nulla. E non capivo. Chiamandolo, scopro che si tratta di un servizio di “Striscia la notizia”. Io non guardo la TV.  La televisione di oggi non mi piace. Da anni, per informarmi, preferisco la meravigliosa anarchia della rete. Ma, grazie alla rete, quella sera riuscii a vedere la replica del servizio incriminato. Vidi comparire un personaggio che, anche se da poco, mi era noto. E tutto mi fu chiaro. Il signore in questione era un giornalista tedesco, si chiamava Jörg Zipprick,  e aveva appena pubblicato un libro in spagnolo. Un libro che gettava cisterne di benzina sul fuoco accesso, l’anno prima, da Santi Santamaria.

Il titolo era “¡No quiero volver al restaurante! De como la cocina molecular nos sirve cola para papel pintado y polvo extintor”, ovvero “Non voglio tornare al ristorante! Di come la cucina molecolare ci serve colla da parati e polvere per estintori”. Quel libro mi aveva fatto arrabbiare. Ma non per il banale motivo dell’attacco alla cucina molecolare. Era un occasione sprecata. Una voce stonata in un dibattito importante. Un’inchiesta interessante rovinata dallo stile urlato e volgare del giornalismo trash.

La diffusione rapida e incontrollata della cucina con gli additivi era un problema sentito e discusso nel nostro ambiente dell’avanguardia. Io lamentavo da tempo l’uso manieristico dei quelle facili polverine, e avevo in più sedi abbandonato ufficialmente il termine “cucina molecolare”, che avevamo introdotto per primi nel 2002, proprio perché era diventato sinonimo di piatti con additivi. Ma i motivi della mia critica erano squisitamente gastronomici. Era una questione di stile. Ho sempre detestato i piatti belli da vedere e cattivi da mangiare. Non ho mai amato gli effetti speciali fini a se stessi. E, non ultimo, non mi è mai piaciuto che si lascia sedurre dall'effetto “scarpe di Pelé”. Usare gli ingredienti di Ferran Adrià non significa cucinare come lui. Chi li usa male è doppiamente stupido, perché si espone ad un confronto che sarebbe meglio evitare. Non è un caso che i grandi chef abbiano lasciato la sferificazione a Ferran e si siano concentrati su innovazioni personali.

Ma questo era un dibattito interno ad un mondo ristretto, che al grande pubblico interessava poco o niente. Gli additivi imperversavano perché erano diventati un grande business, con investimenti in marketing decisamente importanti. Era questo che bisognava spiegare a cuochi. Dovevamo semplicemente ridimensionare il ruolo di nuovo di quei nuovi ingredienti, che erano senza dubbio interessanti, ma che all'epoca erano anche sopravvalutati.

Per fare presa sul grande pubblico non bisognava attaccare il cattivo uso degli additivi. Bisognava sparare più alto. Chi spara a uno sconosciuto finisce sulle cronache locali. Chi spara sul Presidente passa alla storia. E il Presidente era Ferran.

Santi Santamaria era un grande cuoco, tradizionale. Grande amico di Ferran, almeno fino ad allora. Si era scocciato di cuochi più giovani e, in molti casi, meno talentuosi di lui, che imperversavano sui media e nei congressi solo perché citavano dati scientifici. Spesso, da “scienza stupida”. A Madrid Fusion nel 2007 esordì con una conferenza passata alla storia. “Non credo nella cucina scientifica. – disse – Non mi importa se un albume si colora in un modo o in un altro grazie questa o quella reazione chimica. Quello che voglio è mangiarmi quell'uovo. Punto e basta.”. 

E fin qui, niente da dire. Ognuno ha i suoi punti di vista. Ma il successo fu incredibile, sul grande pubblico. Nei mesi successivi si sentiva che c’era qualche sorpresa nell'aria  Nella primavera del 2008 Pere Castells, grande amico e responsabile della ricerca alla fondazione Alicia, l’emanazione scientifica del Bulli, era nel mio laboratorio. Stavamo gettando le basi della ricerca futura e del libro da scrivere insieme. Ma, un bel mattino, il suo cellulare comincia a squillare e per ore è tutta una telefonata frenetica. “Santi è impazzito!”.

Stavolta l’attacco era diverso. Puntava in alto, ed usciva su un libro. Cosa dovete fare se volete attirare veramente l’attenzione del pubblico? Semplice: spaventarlo. Dirgli che qualcuno sta cercando di avvelenarlo. E poi dirgli che tutto questo lo fanno solo per il vil denaro. E che, nell'ombra  a muovere le fila è proprio lui, il Presidente. Successo assicurato. Santi è un uomo colto, scrive bene. La sua costruzione è sottile e affascinante. Scoppia il dibattito. Per i giornalisti è una manna. Bisogna battere il ferro fin che è caldo. Zipprick inizia la sua inchiesta, dove arriva a scoprire le origini del grande business degli additivi nel famigerato progetto INICON. Ma poi, purtroppo, sceglie la strada più facile e scontata, e attacca gli additivi, e chi li usa, accusandoli di nuocere alla salute.

E qui la cosa comincia a non piacermi. Soprattutto perché, per rafforzare la tesi, ricorre a mistificazioni ridicole. A partire dal titolo. Sapete perché si parla di colla da parati e di polvere per estintori? Lo scopriamo leggendo: la metilcellulosa si usa anche nelle miscele di colla per parati e il cloruro di calcio si usa anche nella polvere per estintori. Scoperta geniale. E allora come la mettiamo con la colla di pesce, con cui le massaie nostrane preparano per la panna cotta, ma che è ampiamente utilizzata da ebanisti e restauratori? E se vi dicessero che oggi avete mangiato diversi grammi di decongelante solido per suolo stradale? Non ditemi che adesso vi spaventa anche il sale…

E via così per tutto il libro. Tra le tante chicche una meraviglia: si accusa Ferran di utilizzare una dose di E743 di 6 grammi nella ricetta dell’aria di ciliegie, quando la dose massima giornaliera per una persona di 80 Kg è di 1,6 g. Qualcuno potrebbe, a ragione, obbiettare che la dose massima giornaliera si riferisce ad un consumo quotidiano, non occasionale. Ma, se andiamo a spulciare i dettagli, allora scoppiano grasse risate. Perché scopriamo che con quei 6 grammi, Ferran prepara non una porzione di aria, bensì mezzo chilo. E mezzo chilo di aria basta e avanza per riempire un pentolone da più di 40 litri.

Il problema è che per cogliere questi aspetti bisogna conoscere bene la materia. E poi, ai giornalisti non piace chi smonta gli scoop. Quindi la bagarre va avanti per un po’. In Spagna sulle porte dei ristoranti cominciano a comparire cartelli con la scritta “Qui si cucina senza additivi”. In Italia scoppia il caso di Striscia. Che non sarebbe stato nulla, se non avessimo avuto governanti da operetta che, pur di comparire in TV  si affidano alle informazioni di una trasmissione satirica anziché consultare gli esperti.

Inizia la lotta fra opposti estremismi, che è nemica del buonsenso. Perché la verità, purtroppo, è sfumata. Sta nel mezzo. Non fa notizia. Tutti parlano di additivi, senza sapere che cosa sono. Pensano che la parola abbia un significato scientifico, che invece non ha. La definizione di additivo è puramente legale, e per uno scienziato suona ridicola:

"Per additivo alimentare si intende qualsiasi sostanza normalmente non consumata come alimento, in quanto tale, e non utilizzata come ingrediente tipico degli alimenti, indipendentemente dal fatto di avere un valore nutritivo, che aggiunta intenzionalmente ai prodotti alimentari per un fine tecnologico, nelle fasi di produzione, trasformazione, preparazione, trattamento, imballaggio, trasporto o immagazzinamento degli alimenti, si possa ragionevolmente presumere diventi, essa stessa o i suoi derivati, un componente di tali alimenti, direttamente o indirettamente".

Quei “normalmente” e “ragionevolmente” di scientifico non hanno nulla. E poi la definizione è basta non su una proprietà intrinseca, ma su una prassi. Che, come ben si sa, può cambiare. In cucina non si dovrebbe parlare di additivi. In cucina tutto è ingrediente, e ogni piatto è un mondo a sé.

L’anno dopo, esce la funesta ordinanza ministeriale che ci fa fare una figura da pirla a livello internazionale.

A giugno, riunione a porte chiuse con alti funzionari. Chiedo due o tre cose ovvie: “Se basta rispettare le dosi massime, perché l’industria li può usare e i cuochi no? Pensate che i cuochi siano dei deficienti incapaci di usare una bilancia?”; “Perché avete escluso dalla lista gli edulcoranti?” – “Perché la gente li conosce già e sa come usarli!” – “Come no, come quel gelataio di bologna che ha purgato mezzo quartiere con la sua torta gelato dietetica! Non è che magari la lobby dei produttori di edulcoranti è più potente di quella dei testurizzanti?”. “Consiglio disinteressato: lasciate che l’ordinanza muoia a fine anno e non parliamone più.”.

Peccato che ne avessero parlato le grandi riviste scientifiche internazionali.

Nel frattempo si blocca la sperimentazione sulla distribuzione ai ristoranti dell’azoto liquido, perché la gente ha paura. Ovvio, quando avete dei politici che pensano che l’azoto liquido, a dispetto del suo nome, sia un gas, cosa volete aspettarvi?

A inizio del 2011 l’ordinanza non vale già più. E inutile quindi che mi soffermi sui suoi contenuti. Se volete altre informazioni sulla storia della cucina molecolare e degli additivi, potete sempre leggere l’articolo che ho pubblicato l’anno scorso su una rivista seria (non satirica…).

Cosa ci resta di tutto questo passato recente? Solo una grande amarezza. L’amarezza di veder rovinato il nome della cucina molecolare in cui avevamo creduto. L’amarezza di aver visto grandi cuochi che litigano fra loro. Di vivere tra gente che crede alla TV spazzatura e non si informa. Di aver visto, paradossalmente, rafforzato chi usa male gli additivi.

Il discorso non finisce qui. Dovremo tornarci sopra, perché le cose da dire ancora sono tante.

Mi resta però anche un bel ricordo. Una lunga chiacchierata con Ferran, dopo una cena al Bulli, in quel tremendo 2009. Le polemiche non lo toccavano. Il ristorante era pieno come sempre. Le richieste di prenotazione superiori di cento volte alle disponibilità. Il suo commento su tutta quella bagarre: “Se mangio una pizza cattiva, me la prendo col pizzaiolo, non con l’inventore della pizza”.

Vi è rimasta la curiosità del perché mi trovo a preparare una conferenza con due giorni di anticipo?

Semplice, amici miei. Domani sono in quel di Montecarlo, a pranzo al Louis XV. Non mi va di rovinarmi la giornata con questa piccola storia ignobile.






5 commenti:

  1. Come al solito l'informazione di massa strumentalizza e denigra tutto ciò che desidera, e alla massa più fa scalpore più interessa, senza curarsi molto se la fonte sia attendibile o meno.
    Resta il fatto che Adria' ha fatto storia, con la sua preparazione e cultura (e la sua equipe).
    Vedremo cosa si inventeranno per sparlare di Redzepi.
    Ma per me sono i fatti quello che contano.

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  2. Nivadi

    Davide, come accademico penso tu abbia accesso a Chemical & Engeneering News, settimanale dell'ACS.
    questa settimana c'è una pagina dedicata a Hervé This. Sembra che abbandoni la cucina molecolare per dedicarsi a costruire sapori e piatti praticamente partendo dai singoli costituenti molecolari, quindi additivi!!!
    Il termine usato è note by note cuisine.

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    1. Sì, è almeno da due anni che Hervé This insiste sull'idea della cucina "nota a nota". E' senz'altro un'idea interessante, ma la vedo semplicemente come una possibilità in più, non come sostituto della cucina "tradizionale" (ho sempre detto la stessa cosa anche della cucina molecolare: basta leggere il primo punto del Manifesto!). In profumeria è dall'Ottocento, con la sintesi della vanillina, che si utilizzano come ingredienti singoli costituenti molecolari. Ma, almeno per i profumi di alta qualità, si usano sempre affiancati agli estratti naturali. L'unione fa la forza...

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  3. Buonasera professore, sono un giovane laureato in economia aziendale con una passione viscerale per la cucina, tanto che da un anno a questa parte mi sono messo in gioco, e cucino in un ristorante, gestito da due amici che pazzamente, hanno deciso di puntare su di me, nel mio piccolo paese nel centro della Sicilia. Sono una persona molto curiosa e un lettore vorace, e stando dietro i fornelli in questi mesi mi sono chiesto tanti perché, che mi hanno portato a scoprire il fantastico mondo della cucina molecolare. Finisco proprio di leggere il suo libro ("Il gelato estemporaneo") e devo farle i miei complimenti sia per il libro in sè, sia per la passione e la semplicità con la quale riesce a comunicare i suoi concetti. Qua dalle mie parti la gente è tipo il pubblico ideale di Striscia la Notizia, per cui le lascio immaginare quanto possa essere difficile trovare qualcuno con cui chiacchierare di questi temi e anche quando mi è capitato di porre uno dei miei tanti perché ai vari chef frequentati per motivi di lavoro nell’ultimo anno, molto spesso la risposta è stata: “perché si è fatto sempre così”.
    Mi piacerebbe in futuro aprire un ristorante tutto mio in cui proporre una "cucina con un background scientifico" come mi piace definirla, ma ho un dilemma fondamentale:
    Conosco storie di chef autodidatti anche ad alti livelli, ma secondo lei si può diventare "chef molecolari autodidatti"? nonostante studiare e lavorare sia difficile ci provo, ma diciamo che la chimica non è stato il mio forte!
    E poi, potrebbe consigliarmi qualche lettura? anche in inglese o in spagnolo può andar bene!
    La saluto cordialmente, e continuerò a seguirla e “a fare il tifo” per lei!

    Enrico.

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    1. Caro Enrico,
      innanzitutto complimenti per la tua passione e la tua volontà. Sono punti di partenza irrinunciabili.
      Se dovessi consigliarti un solo libro, ti direi senz'altro On Food and Cooking di Harold McGee. E' molto voluminoso, ma è una lettura piacevolissima, perché Harold, a differenza di quanto crede chi non lo conosce, non è uno scienziato, ma un umanista ed un giornalista divulgatore di classe.
      Ma soprattutto, non fidarti mai ciecamente di quello che leggi. Se appena puoi, prova. Fai l'esperimento di persona. Rifallo anche 100 volte. E' solo così che si impara.

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