mercoledì 6 giugno 2012

Gli esperimenti imprevisti


Ci sono momenti meravigliosi in cui mi ritrovo solo in laboratorio.

Attimi inaspettati, regalati da un appuntamento annullato, da un lavoro finito in anticipo, da un impegno posticipato.

Troppo brevi per dare inizio a un nuovo progetto, troppo lunghi per un’attesa oziosa.

E’ allora che nascono gli esperimenti imprevisti: pura improvvisazione, senza una preparazione meditata, senza nessuna aspettativa. Sono la delizia di un ricercatore: nessun burocrate idiota che ti chiede di compilare moduli chilometrici, in cui dichiari cosa vuoi fare, perché lo vuoi fare, cosa pensi di ottenere, attraverso quali tappe e rispettando quali scadenze. Ecco, quelli sono l’incubo di uno scienziato, il lato del mestiere che ti fa rimpiangere di non aver scelto altre strade nella vita.

Ma poi, come per magia, il tuo lavoro ti regala questi momenti d’incanto, e ti ritrovi a fare cose che non avresti mai pensato. Spesso accade verso il tramonto. Indugio un poco a rimirare, dalla parete a vetri, l’orticello delle aromatiche e l’angolo delle patate viola, che mi crescono sotto gli occhi. Poi mi ritrovo ad assaggiare soluzioni di cloruro di magnesio a diverse concentrazioni, o a mescolare i pigmenti dello zafferano con la malva, a misurare l’impedenza complessa del caffè che mi sono appena fatto, a cuocere un pollo col ferro da stiro, o a contemplare lo spettro di Fourier di un grissino che si rompe tra i miei denti.

Se qualcuno entrasse all’improvviso e vedendomi mi chiedesse “Perché fai queste cose?”, non esisterei a rispondergli: “Per vedere cosa succede!”. Non è questo, in fondo, lo scopo più puro e profondo di ogni esperimento?  Il mondo scientifico è molto vario. Per una certa categoria di persone, fare esperimenti significa semplicemente eseguire misure e ottenere come risultato tanti numeri, magari da raccogliere in grafici e tabelle. Altri pensano che la scienza che conosciamo, da sola, sia più che sufficiente a spiegare ogni dettaglio della vita quotidiana e, ovviamente, anche della cucina.

Io non ci ho mai creduto.

Conosco tanta gente che si fida a tal punto di libri e articoli da escludere totalmente la possibilità di ripetere un esperimento per verificare di persona cosa succede. C’è chi arriva a scrivere un nuovo libro parafrasando e ricomponendo pezzi di altri libri. O a fare divulgazione attraverso un giochetto di copia e incolla da testi e pagine web.

A me è sempre piaciuto vedere con i miei occhi.

Toccare con le mie mani.

Ascoltare, fiutare, assaggiare.

Non tanto per amore del dubbio (“Io son come Tommaso e non ci credo finché non ci metto il naso… -diceva una canzoncina della mia infanzia), ma per il piacere di conoscere con tutti i miei sensi. Il piacere di entrare in contatto profondo con il fenomeno da studiare. Il desiderio di non ridurlo a un puro fatto cerebrale. E’ da qui che prende forma quello che mi piace chiamare il subconscio del ricercatore: quell’insieme di esperienze non catalogate, vissute quasi irrazionalmente, che inglobi dentro di te e ti plasmano l’intuito. Possono restare sopite anche per anni. Poi, all’improvviso, di fronte a un piccolo dejà vu, a un indizio nascosto, a una madeleine proustiana, si svegliano e ti parlano, ti suggeriscono cosa devi fare, ti indicano con chiarezza la strada che cercavi nel buio.

Come sarebbe bello se la gente ritrovasse il piacere di osservare e di provare. Se i genietti del copia e incolla si fermassero un attimo e mettessero la mani in pasta. Eviteremmo di leggere in giro mille ricorrenti fesserie. Come la favola del forno a microonde che non scalda l’olio o quella del brodo che risulterebbe identico partendo dall’acqua calda invece che dall'acqua gelida.

Ma, in fondo, chi se ne importa?

Sono qui, nel mio laboratorio luminoso e colorato. Respiro profumi deliziosi che mi fanno sognare. Fuori, il cielo padano mi sta regalando un tramonto da togliere il fiato. E poi, mi aspettano le patatine che ho appena fritto. Nel microonde, ovviamente.


Un momento di contemplazione. Cristalli di sale sul fondo del bicchiere.


5 commenti:

  1. visto e presto, oserei dire.
    ho l'onore di essere la tua prima follower.
    una laurea e un dottorato in fisica in tasca, sono diventata un'insegnante con la passione della cucina.
    questo post sarebbe da incorniciare.

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  2. p.s. hai dei problemi con i captcha. personalmente, da quando le parole da verificare sono diventate due, ho preferito inserire la moderazione dei commenti. molto meno noiosa per i lettori...

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  3. Mille grazie!
    Non poteva esserci un'inaugurazione più adeguata.
    Prima di tutto perché sei una fisica anche tu.
    E poi, proprio fra queste quatto mura (o meglio, tre mura e una vetrata), cinque anni fa, dalle mie farine trattate e dalle mani magiche di Fulvio Pierangelini sono nati i ravioli di ceci e i bignè di castagne.
    Un segno del destino.

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  4. bignè di castagne? non me li ricordo nel libro.
    proverò, le castagne sono fra le mie preferite.
    ma anche la farina di castagne va preventivamente cotta in forno a bassa temperatura come quelle di legumi legumi oppure non importa?

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  5. E' vero: non sono nel libro.
    Li abbiamo presentati a Lo Mejor de la Gastronomia nel 2008:

    http://www.latini.com/it/notizie/bpalcoscenicodonoreperfulviopierangelinialomejordelagastronomialasuaponenciacondavidecassinonsaradimenticatab.php

    La farina è sempre cotta!

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