Ho un caro amico d’Oltralpe, che
ritiene la Scienza superiore a tutto, e la cucina solo una piacevole
applicazione dei suoi principii.
Un altro, cisalpino ed erudito,
trova disgustoso che i cuochi moderni usino quel gel d’alghe, su cui i
microbiologi coltivano i batteri.
Un altro ancora, giornalista,
sostiene che solo grazie al genio di Ferran ora sappiamo che l’agar-agar è
l’ingrediente giusto per le gelatine calde.
Per non parlare di quel mio
vecchio professore, che ha iniziato ad arricciare il naso la prima volta che mi
ha visto passare per il corridoio con una pentola in mano e, siccome non ho più
smesso, si ritrova col muso irreversibilmente rincagnato.
A tutti costoro, voglio dedicare
la storia, simpatica ed istruttiva, che sto per raccontarvi. Ricostruita, com'è mio scrupolo ed uso, sui
documenti originali.
Era luglio, luglio come adesso,
e, nel Nordest dell’Italia ancora disunita, faceva un terribile caldo afoso.
Per quanto, s’intende, potesse far caldo nel 1819, ovvero nel pieno del secolo
più freddo del millennio. Il raccolto del mais dell’autunno precedente era stato
fantastico e sulle tavole del popolo abbondava la polenta. E se ne faceva
talmente tanta che poi durava due o tre giorni. Ovviamente fuori frigo, visto
che John Gorrie non l’aveva ancora inventato.
Ora, voi moderni vi stupireste ritrovandovi servito, in una soffocante
serata padana, un cibo considerato prettamente invernale. Ma, due secoli fa, la
polenta era il pane quotidiano dei poveri e dei contadini. D’altra parte, il
simpatico appellativo “polentoni”, una sua giustificazione storica la deve ben
avere.
Immaginate dunque la strana
sensazione che dovette provare il signor Borgato, “colono del territorio
padovano”, quando, un bel giorno di prima estate, vide la sua polenta
sanguinare.
Oggi, notando la comparsa di
macchie rosse sulla polenta del giorno precedente, potremmo reagire in tanti
modi. C’è chi, semplicemente, la getterebbe. Ci consulterebbe internet cercando
spiegazioni. Chi chiamerebbe l’ASL. Ma, allora, si pensava più comunemente ad
un prodigio o ad una maledizione. In entrambi i casi, la scelta era obbligata:
chiamare il prete. Per l’occasione, si scomodò addirittura l’abate Melo. Ma,
visto che il fenomeno non aveva nulla di soprannaturale, riti e benedizioni non
sortirono alcun effetto. Anzi. Lo strano caso della polenta sanguinante si diffuse
in altre case, suscitando spavento ma pure maldicenze: le malelingue
attribuivano ai malcapitati contadini inconfessabili colpe, che avrebbero
provocato quella curiosa punizione. Tra i più colpiti dal venticello della
calunnia, le cronache ricordano un tale Antonio Pittarello di Legnaro, paese
del padovano oggi ben noto nel mondo scientifico. Si cominciava ad esagerare.
O, almeno così penso la Polizia del neonato Regno Lombardo-Veneto. E, siccome
agli austriaci le esagerazioni non andavano a genio, venne nominata una
commissione, “principalmente composta de’ professori chiarissimi
dell’Università di Padova”, per dirimere la questione.
Come accade ancora oggi, gli
illustri esperti di nomina governativa ispezionarono, si consultarono e
relazionarono, senza capirci un accidente.
Viceversa, un ventottenne
studente di farmacia in quarantott’ore risolse il dilemma.
Bartolomeo Bizio, che veniva
dalla campagna vicentina, con la polenta aveva una certa dimestichezza. Per
cui, invece di consultare libri ed esperti, fece l’unica cosa che fa in questi
casi uno scienziato vero. Esperimenti.
Preparò la sua polenta e la
espose all'aria calda e umida, fino a farla contaminare dalle macchie rosse.
Poi, provò che la contaminazione si poteva propagare, sia per contatto che a
distanza, ad altri pezzi di polenta. Infine, riuscì a inattivare la
propagazione con i vapori di zolfo e le alte temperature. Ne concluse che il
fenomeno della “polenta porporina” era dovuto a quello che oggi chiamiamo un
batterio. Lui la chiamava pianticella, e la battezzò Serratia Marcescens, per vendicare l’onore di un monaco
toscano. Nello specifico, di Serafino
Serrati, che inventò il battello a vapore prima di Fulton ma, siccome non era
americano, cadde nell'oblio.
Bizio divulgò la scoperta il 22
di agosto. Due giorni dopo la notizia già stava sulla Gazzetta. In seguito, si
trovò a polemizzare con l’abate Melo. Quest’ultimo sosteneva che il fenomeno
della polenta sanguinante era dovuto alla permanenza all’aria per tempi di due
o tre giorni. Ma gli esperimenti del giovane di Costozza di Longare mostravano
tutt’altro. La Serratia si sviluppava
nelle prime 24 ore. Poi subentravano le muffe, che la distruggevano: “anzi oltre un tale periodo s' alzano con
rigoglio le altre muffe, le quali impediscono efficacemente l'accennata
colorazione. In questa circostanza si osserva in piccolo quello, che in grande
suole addivenire, cioè che le piante di maggior levatura abbattono così le
piccine, che fatte tisicuzze pel danno che ricevono, terminano alla per fine
col perire intieramente.”
Qualcuno noterà in queste parole antiche
un’osservazione profetica…
Di fatto, Bartolomeo Bizio non
aveva soltanto scoperto la Serratia
Marcescens. Con i suoi esperimenti
tra i fornelli, aveva introdotto la tecnica di coltivazione e riproduzione dei
batteri su substrato solido.
Passarono otto lustri. Arrivò
Pasteur e nacque la microbiologia moderna. Pasteur confutò la teoria della
generazione spontanea facendo bollire un brodo di carne. E nei bordi continuò a
coltivare i suoi microorganismi. I
substrati liquidi però avevano un problema: nei bordi tutto si mescola ed è
impossibile separare i diversi ceppi batterici. Cosa che invece si poteva fare
sulla polenta, dove le varie macchie porporine crescevano separate. La
soluzione era proprio il substrato solido. Nel 1872 Joseph Schröter riesce ad
isolare diversi batteri cromogeni utilizzando substrati gastronomici: patate,
albume d’uovo, cotto, gel di amidi, carne. Il metodo, però, era di applicazione
limitata. Quando i batteri non erano del tipo che genera pigmenti, accadeva
spesso che il loro colore si confondesse con quello del substrato. Che, d’altra
parte, non poteva essere cambiato a piacimento: ogni batterio ha le sue
preferenze alimentari…
Nove anni dopo, Robert Koch trovò
la chiave del dilemma: il substrato doveva essere solido, trasparente e
sterile. E in grado di incorporare il brodo nutriente adeguato. C’era un ovvio
candidato ideale a questo ruolo: la gelatina animale, meglio conosciuta come
colla di pesce, che il micologo lombardo Carlo Vittadini aveva iniziato ad
usare trent'anni prima.
Koch iniziò a rivestire di
gelatina il fondo delle basse capsule cilindriche di vetro, che il suo
assistente Julius Richard Petri aveva inventato per lui. La ricerca subì una
rapida accelerazione. Ma, come sempre, i problemi non erano finiti.
La gelatina aveva due grossi
difetti. Tanto per iniziare, essendo un gel di proteine, poteva essere
distrutta dai microorganismi proteolitici.
E poi, soprattutto, tornava inesorabilmente allo stato liquido quando la
si scaldava fino a 37°C. Un bel problema, quando si deve simulare lo sviluppo
batterico nelle condizioni termiche del corpo umano…
Probabilmente Koch non aveva la
stessa dimestichezza con la cucina dei suoi predecessori. Ma aveva tanti
collaboratori ed allievi, più o meno illustri.
Walther Hesse all’epoca faceva il
medico condotto a Schwarzenberg, in Sassonia. Nell’inverno 1881-1882 trascorse
un periodo di studio presso il laboratorio di Robert Koch a Berlino, spinto
dall’interesse ad indagare la presenza nell’aria. Negli anni precedenti, il suo
iter scientifico l’aveva portato a girare l’Europa ed il mondo. Nel 1872,
mentre era medico di bordo sulle navi per New York, studiò per primo il mal di
mare. E, durante il soggiorno nell’attuale Grande Mela, gli presentarono una
famiglia di emigranti olandesi di nome Eilshemius. Tra lui e la figlia maggiore,
Fanny Angelina, dovette scoccare una scintilla. Perché, qualche mese dopo,
durante un viaggio in Svizzera degli Eilshemius, Fanny Angelina, accompagnata
dalla sorella si allunga fino a Dresda per rivedere Walther. L’estate dopo si
fidanzano e si sposano a Ginevra nel 1874.
Lina, come la chiamava Walther,
era un’ottima cuoca e disegnatrice. Divenne a tutti gli effetti la sua
assistente nel laboratorio casalingo che aveva messo in piedi a Schwarzenberg.
E lo aiutava nei suoi esperimenti con tubi di vetro rivestiti all’interno di
gelatina, per catturare i batteri dell’aria. Le gelatina era un vero guaio
anche per Hesse. Sul più bello, gli si scioglieva, rendendo vana ogni fatica.
Stranamente, non si scioglievano
mai le meravigliose gelatine di frutta e verdura che Frau Lina preparava in
cucina, con la ricetta di mamma. Ricetta che, a quest’ultima era stata
insegnata da un vicino di casa olandese, che aveva vissuto per un certo periodo
a Giava. A Giava, come in molti paesi limitrofi, fa molto caldo, e la colla di
pesce sarebbe del tutto inutile per produrre cibi solidi. Fortunatamente, laggiù
abbondano diverse specie di utilissime alghe rosse, da cui si estrae un
gelificante, che chiamiamo agar-agar, perfetto per la cucina dei climi
tropicali. Le gelatine che produce resistono solide fino a circa 90°C.
L’agar-agar era diffusissimo nelle cucine dell’estremo oriente e sui mercati
internazionali. Per cui Lina non aveva difficoltà a procurarselo e ad
utilizzarlo per le sue ricette casalinghe. Le venne del tutto naturale
suggerire al marito di usarlo per rivestire i tubi al posto della malefica
colla di pesce.
Walther l’ascoltò ed ebbe finalmente successo.
E fu la rivoluzione.
Il dottor
Hesse comunicò la notizia a Koch, che immediatamente ne fece tesoro. Grazie
alle capsule di Petri, rivestite di agar-agar, isolò il bacillo della
tubercolosi.
Dalla polenta di Bizio alle
gelatine di Frau Hesse erano passati poco più di sessant’anni.
Per dare un’ultima soddisfazione
a Bartolomeo e Lina, facciamo un altro passo in avanti di quarant’anni. Siamo a
Londra, in un laboratorio del Saint Mary Hospital. Le capsule di Petri
rivestite di agar-agar sono ormai uno standard. Oltre a coltivare i batteri,
ora si cerca di farli fuori, senza nuocere al corpo umano che li ospita. A un
ricercatore scozzese un po’ originale, o distratto, gocciola il naso su una di
queste capsule. Miracolo: dove è caduto il muco, i batteri non si sviluppano.
Il ricercatore scopre il lisozima e le sue proprietà antibatteriche. E’ un
successo parziale, perché i batteri più cattivi del lisozima se ne fanno un
baffo. Così il nostro va avanti. Nell’estate del 1928 evidentemente ha bisogno
di riposo e se ne va in vacanza in campagna. Doveva avere molta fretta di
partire, perché, invece di ripulire per bene il bancone dagli esperimenti
finiti, sbatte in un angolo, accatastate, tutte le capsule di Petri piene di
agar-agar e di batteri. Quando torna, a settembre, ovviamente trova quasi tutto
ammuffito. Getta le capsule in un vassoio riempito di Lysol per disinfettarle,
ma sono talmente tante che non riesce a sommergerle tutte. Arriva a trovarlo un
suo ex assistente e, per fargli vedere con quanta mole di lavoro l’aveva
lasciato, gli mostra il cumulo di capsule sul vassoio. Va da sé che sulla cima
del mucchio la muffa non se n’era andata. Anzi, si era sviluppata tanto da far
fuori una colonia di Staphylococcus
aureus. Che curiosa coincidenza con le muffe sulla polenta di Bizio…
Se il nostro distratto
ricercatore fosse vissuto a Napoli, l’avrebbero soprannominato Alex ‘o zuzzus. Ma gli anglosassoni non
si lasciano andare a queste simpatiche iniziative, per cui lo chiamavano semplicemente
Alexander Fleming. Quel giorno, Sir Alexander scoprì la penicillina.
Non possiamo nemmeno contare il
numero di vite salvate grazie a questa affascinante successione di eventi.
Che
sarebbe accaduto, se Frau Lina avesse detestato cucinare?
Rendiamo omaggio a questa
fantastica donna di casa e di cucina.
Che ha tutti gli indici bibliometrici
rigorosamente nulli.
Ma ha giovato, alla scienza e all'umanità, molto più di
migliaia di accademici titolati.
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Lina e Walther |
Bartolomeo |
ma che storia fantastica! Guido
RispondiEliminaMa la polenta porporina è tossica o innocua? Perché mi piacerebbe mangiarla col formaggio verde...
RispondiEliminaCaro Sebastiano, può causare diverse infezioni... io non rischierei!
RispondiEliminaaffascinante, non conosco altre parole per descrivere quesa storia, e questo blog...
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