lunedì 25 maggio 2020

Ode alle lezioni dal vivo

Homo sumhumani nihil a me alienum puto.

Sono tornato in laboratorio, dopo due mesi d’astinenza.

Da solo, lungo i corridoi vuoti, con la mascherina sul volto, camminavo in un ambiente surreale. Fuori, la gente che torna a vivere, i ragazzi che si incontrano, parlano, ridono.
Dentro, il vuoto.
Le regole sono ferree: se la stanza non supera i 40mq, ci può lavorare solo una persona. Altrimenti, si può stare in due, non di più. Grazie al cielo, di laboratori ne gestisco quattro e i miei collaboratori riesco a distribuirli bene. Fissiamo i turni su Teams, tutto sotto controllo.
Ad essere ottimisti, potresti dire che lo scenario è lo stesso che trovi quando vai il sabato o la domenica: si entra con la scheda magnetica e non si incontra quasi nessuno. Ma, nei giorni di chiusura, di solito si va per le emergenze: a controllare che tutto sia a posto, a dare un’occhiata a un esperimento lungo. L’aspetto sconvolgente è che questa dovrebbe essere la nuova normalità. Per quanto tempo, non è dato saperlo.
Ma non si può continuare per sempre così.
Ci sono esperimenti che non puoi fare da solo. Atri che, in ogni caso, richiedono tanti occhi ad osservare. La ricerca vera non si fa schiacciando un bottone e registrando numeri e curve su uno schermo. Quando esplori l’ignoto, devi allertare tutti i sensi e confrontarti con i compagni d’avventura.

Per fare lezione, devo tornare a casa.

All'inizio, abbiamo provato a scrivere dispense d’emergenza, da leggere, discutere e poi studiare. Poi è arrivato l’ordine delle videolezioni: da registrare, per provare che stavamo facendo il nostro dovere. Con anni di televisione alle spalle, ho iniziato a tremare: senza uno studio di registrazione, senza regia, senza montaggio… veramente pensiamo di essere dei maghi che, in presa diretta, catturano per ore l’attenzione del povero studente davanti allo schermo di un computer, magari in un angolino risicato di una casa viva e rumorosa? Da ragazzi, si giocava a calcio alla viva il parroco!. Ora, se tornasse in vita, Gianni Brera direbbe che facciamo teledidattica alla viva il rettore!.

Ho iniziato con brevi videopillole su YouTube, tastando la risposta degli studenti in chat. Ma il coinvolgimento mancava. Allora ho osato la diretta in streaming. Tutto sommato, sarebbe comunque stato meglio. Al secondo semestre, insegno Fisica della materia soffice alla Laurea Magistrale in Fisica. Ho quattro studenti, quest’anno: almeno posso vederli in faccia. Con tempo e pazienza abbiamo rotto il ghiaccio. Abbiamo impostato un’attività sperimentale da fare a casa. Ognuno s’è costruito la strumentazione necessaria, ha girato i video degli esperimenti, ha raccolto i dati. Abbiamo discusso e ragionato insieme.

Non sono certo allergico alle innovazioni. Da qualche anno insegno ad usare lo smartphone come strumento di misura; insegno a fotografare, filmare, analizzare, tutto quello che ci capita sotto gli occhi di interessante.

Eppure, mi manca ancora qualcosa di fondamentale.

Quindici anni fa, mentre scrivevo il Manifesto delle cucina molecolare Italiana, avevo ben chiaro quale dovesse essere il rapporto tra vecchio e nuovo:


1 Ogni novità deve ampliare, non distruggere, la tradizione gastronomica italiana.


Mi piace molto l’idea di queste attività domestiche da condividere in rete. Mi piace l’idea di addestrare gli studenti alle videoconferenze. Trovo utilissimo insegnare ai miei ragazzi come realizzare un video degno di pubblicazione in rete: il nuovo linguaggio della comunicazione ormai è questo, lasciamo Powerpoint alle vecchie generazioni.

Eppure, mi manca l’aula, mi manca la presenza reale, mi manca la condivisione di uno spazio fisico comune.

La didattica non è fatta solo di immagini e suoni. Si basa su un’empatia che nasce dalla condivisone.

 Condividere un’aula è vedere gli oggetti sotto la stessa luce, respirare la stessa aria, provare caldo o freddo insieme. Scambiare uno sguardo, una parola bisbigliata. Vivere una quotidianità comune, conoscersi attraverso i gesti e i movimenti più banali, vestiti ed accessori. Parlare, soprattutto, di mille cose, al di fuori dello schema rigido di una lezione.

Insegnante, figlio di insegnanti, sono nato e cresciuto nel mondo della scuola. Mio padre insegnava ai geometri. Mia madre, all'istituto magistrale, ha insegnato la matematica a generazioni maestre della mia città. In quella vecchia scuola, in cui la didattica era qualcosa di serio e quasi sacro, si ripeteva come un mantra una frase apparentemente ingenua: 

Per insegnare il latino a Pierino,
devi conoscere il latino e devi conoscere Pierino
”.

Di Pierini ne ho conosciuti qualche migliaio, nei miei lunghi anni di insegnamento. Ho iniziato al principio del 1987, alle scuole superiori: a pochi mesi dalla laurea, i miei genitori mi spinsero a provare subito il lavoro a cui mi sentivo chiamato. Ho provato tante scuole e poi l’università. I miei Pierini, di anno in anno, cambiavano modo di vestire, di parlare, di divertirsi. Poterli osservare da vicino è stato incredibilmente importante per capire come rivolgermi loro, per riuscire a farmi capire, cambiando di volta in volta parole e modi. Mi adattavo a Pierino e al mondo intorno. Si alternavano le stagioni, giorni di pioggia e giorni di sole. Sembra banale, ma il tempo fuori ci influenza: con la pioggia o col sole, parliamo e recepiamo diversamente. L’importante è essere sintonizzati sulla stessa modalità. Cosa molto difficile, se io parlo in video da Parma, mentre il mio studente Erasmus mi segue da Francoforte.

È un’emergenza, ci ripetiamo. Le emergenze si superano e servono ad imparare e migliorarsi. È un’emergenza e ce la stiamo cavando.

Poi, però, si fanno sempre più ricorrenti le voci di una proroga al prossimo anno accademico. Chi dice che si continuerà così al primo semestre. Chi teme anche al secondo. Chi auspica, entusiasta, che questa diventi la nuova normalità.

Ed io comincio a sudare freddo, perché al primo semestre ho il corso a Scienze Gastronomiche, con più di trecento studenti. Vederli in faccia, anche a distanza, è impossibile. Sarà una recita davanti a una telecamera. Uno spettacolo teatrale senza pubblico in sala. Senza il feedback degli sguardi e dei piccoli gesti che ti indirizzano durante il tuo lungo monologo. Chi ama il teatro sa quanto perde quando viene filmato. Chi ama il cinema sa che il suo linguaggio è altra cosa. Se continua così, dovremo spostarci nella direzione del cinema. Accettare l’ossimoro di una lezione senza studenti. Che è come il caffè decaffeinato, la birra analcolica, il pesto senz’aglio. Si può fare, certo, ma resta un blando surrogato. Nelle emergenze si può accettare, in mancanza di meglio, come abbiamo accettato il delivery dal ristorante stellato. Ma la normalità è riempire sale e tavoli, aule e banchi.

A meno che questa non sia solo la punta dell'iceberg. L’ultimo atto di quella strisciante tendenza a spersonalizzare la didattica, ad inquadrare in schemi precostituiti il rapporto studente docente. Ad illudersi che una lezione ben fatta si possa registrare e riproporre nello stesso modo a chiunque. Quella tendenza che, sotto le spoglie di una seria e scientifica oggettività, tende a disumanizzare l’insegnamento e a irregimentarlo in codici prefissati, che fanno qua e là capolino con termini dal suono sinistro, come Syllabus e Indicatori di Dublino.

L’altro giorno un vecchio amico e collega mi ha confessato che, se le cose andranno così, chiederà il pensionamento anticipato. Gli ho detto che non deve tirarsi indietro. Che è proprio la generazione che ha sperimentato l’università vera a dover continuare a vivere e lottare.

Se la deriva spersonalizzante continuerà ad imperversare, organizzerò lezioni clandestine nei prati o nelle sale fumose delle bettole di periferia.

Non saremo complici di chi vuol trasformare l’università, da culla di grandi idee, progetti e sogni, in un triste diplomificio a distanza.