Nella scoppiettante Spagna degli
anni ’90, quando tutto era entusiasmo e la crisi non entrava nel lessico
quotidiano, uno chef disse a un giornalista:
“Perché non organizzi un evento
in cui i cuochi vengono trattati come star?
Nacquero i congressi di
gastronomia, dove i cuochi si esibivano in ponencias davanti ad un pubblico sempre più
numeroso ed osannante. Ponencia in
italiano significa semplicemente conferenza ed è il termine ufficiale con cui si
definiscono le relazioni ai congressi scientifici. Quei congressi, però, erano
molto diversi dai convegni di scienziati. Non erano incontri fra un numero
selezionato di addetti ai lavori, ma esibizioni di una cerchia ristretta di
invitati di fronte ad un pubblico più o meno competente di appassionati.
Se nessuno, fino ad allora, aveva
mai pensato di organizzarli, qualche motivo c’era.
In primis, si suppone che un
cuoco debba saper cucinare bene, piuttosto che affascinare una platea di
ascoltatori. Certo, quando si sentivano parlare Gualtiero Marchesi, Arrigo
Cipriani, o Fulvio Pierangelini era facile restare incantati. Molto più spesso, svaniva la magia, come quando una
fanciulla dalla bellezza eterea, dopo che l’abbiamo a lungo contemplata,
improvvisamente apre la bocca e si esibisce in uno show di turpiloquio
borgataro.
Il motivo più profondo in realtà era una altro. Se lo scopo della
cucina è preparare piatti buoni, per capire quanto e perché un piatto è buono
bisogna assaggiarlo. Ma quando i cosiddetti congressisti arrivano ad essere un
migliaio, capirete che il problema si fa serio, sia dal punto di vista
logistico che da quello economico. La soluzione ovvia fu presto trovata: i
cuochi avrebbero cucinato sul palcoscenico, come già accadeva, di tanto in
tanto, in tv. Poi, il fortunato moderatore o giornalista di turno, avrebbe
assaggiato per tutti e raccontato.
Sembra semplice, ma non è così.
Innanzitutto il palcoscenico non è una cucina e va attrezzato alla bell’e
meglio. Poi gli spettatori sono lontani, dunque occorrono telecamera e
maxischermo. Praticamente siamo in TV, anche perché, dalla platea distante, i profumi
non si sentono proprio. Chi conosce la Tv, sa che è finzione. Bisogna disporre
oggetti e persone in modo che siano ben visibili nel quadro bidimensionale
della ripresa, sovvertendo l’ordine logico e naturale che avrebbero in una
cucina vera. I movimenti devono adattarsi alla telecamera. I tempi, le forme e
i colori pure. Se una preparazione è per sua natura lenta, la sia accelera, tirando
fuori magicamente da sotto il banco il risultato di ore di “riposo”. In poche
parole, vince solo ciò che è telegenico: veloce, colorato, spettacolare. Se il
piatto poi non è buono, che importa? Il presentatore, con consumata arte da
istrione lo assaggerà, fingendo emozioni e commozione in primo piano sul
maxischermo, e decanterà meraviglie inesistenti.
Il piatto, alla fine, è solo un pretesto.
Il piatto è immobile davanti alla telecamera; dopo qualche secondo, a vederlo
soltanto, annoia. Quello che conta non è più il vero spettacolo gastronomico,
che da secoli si svolge in sala, ma piuttosto il suo backstage, che, viceversa,
per secoli è stato tenuto en nascosto nell’ombra delle cucine. Questo è il
tributo da pagare alla dirompente civiltà dell’immagine, che sta inesorabilmente
distruggendo la cultura dei sensi. Il successo del Profumo di Süskind non ha ancora vent’anni e sembra già
archeologia.
Negli stessi anni si stava
diffondendo internet. Internet per il popolo, intendo. Quella a buon mercato,
anzi gratuita, e facile da usare. Fino ad allora lo strapotere delle immagini e
degli audiovisivi era limitato dalla complessità e dal costo dei mezzi di
diffusione. I filmati si vedevano in tv. Poi improvvisamente arriva Youtube e
chiunque può trasformarsi in un’emittente indipendente. L’appassionato va al
congresso e pubblica il suo reportage. Senza passare da filtri iperselettivi,
come l’iscrizione all’Ordine o il contratto.
Le immagini colorate e veloci dei
backstage dell’alta cucina volano e si moltiplicano sulla rete. Ma solo quelle.
Vista ed udito sono sensi speciali. Percepiscono onde, non materia. Possono essere “ingannati”, riproducendo la stessa
onda senza bisogno di riprodurre la materia che l’ha generata. Ovvero, posso
riprodurre mille copie dell’immagine di un’aragosta, senza comprare e cucinare mille
aragoste. Tatto, olfatto e gusto, ahimè, sono più esigenti. Hanno bisogno della
materia. Hanno bisogno di smontarla e distruggerla per coglierla, analizzarla
ed apprezzarla. Non si accontentano della foto dell’aragosta. In altre parole,
le sensazioni olfattive, gustative e tattili non sono riproducibili se non
riproducendo l’oggetto che le ha generate.
Risultato: la cucina e la
gastronomia acquistano una popolarità senza precedenti ma, nel contempo, vengono
lentamente snaturate. I cuochi iniziano a dar più importanza alla tecnica che
non al risultato. Il pubblico inizia a dare più importanza all’aspetto visivo
dei piatti che al loro sapore.
Si spiega così la tremenda
popolarità di tecniche che, dal punto di vista dei risultati, sono decisamente
modeste.
Una per tutte: la sferificazione, che è diventata, negli anni, un’icona
della cucina molecolare. Quando Ferran Adrià servì per la prima volta al Bulli
il caviale di melone, giocava sull’effetto sorpresa. Chi si sarebbe aspettato
che quelle palline arancioni, nella scatoletta metallica del caviale, contenessero
succo di melone? Finita la sorpresa, le sferette di alginato ,nella sua cucina
hanno sempre occupato un ruolo marginale. Non così nell’immaginario collettivo.
Perché la procedura di sferificazione è bellissima da vedere e da raccontare.
Vuoi mettere? Davanti all’ingorda telecamera, in pochi secondi ti trasformo
goccioline di liquido colorato in sferette perfette. Poi le rompo e ti faccio
vedere che all’interno sono liquide… Una manna anche per il divulgatore, che
riesce a spiegare con facilità, al profano, una scienza apparentemente lontana
e difficile: allungo un braccio e nascondo l’altro per simulare lo ione sodio,
poi magicamente allungo tutt’ e due le braccia e mi trasformo nello ione
calcio, che prende per mano una catena di alginato di qua e una di là e le
unisce in un magico abbraccio… Peccato che in bocca restino semplicissime
palline dalla superficie elastica e gelatinosa, riempite di un liquido, più o
meno buono a seconda di chi le ha preparate.
L’effetto di questa enfasi sulle
tecniche spettacolari non è del tutto innocuo. Vedo aumentare le schiere di
giovani aspiranti chef, bravissimi a sferificare, ma incapaci di bilanciare un
piatto (ovvio, quello non si trova su Youtube).
Allo stesso tempo, cucinieri e
pubblico entrano nell’era dei piatti da mangiare con gli occhi. Piatti che
devono essere belli e originali, sennò non finiscono su giornali, video e blog.
Ormai non diventi popolare grazie ai clienti che mangiano da te. Quelli sono
una minoranza. Quelle che fanno la differenza sono le persone che parlano di te
senza aver mai mangiato. Bisogna tenersele
buone e preparare regolarmente piatti telegenici, che possano spopolare in rete
e ai congressi. “Ostra Guggenheim Bilbao” e “Interpretación de la vanidad” non
sono certo le creazioni migliori di Quique Dacosta e di Andoni Luis Aduriz, ma
sono tra quelle che hanno più contribuito a renderli famosi presso il grande
pubblico, che frequenta la rete più dei ristoranti.
Un tempo, si ironizzava sugli
sportivi da poltrona, che passavano le domeniche incollati alla Tv. Oggi si sta
diffondendo la categoria dei gourmet da display, che sta cambiando la
sociologia gastronomica. Su Facebook siamo inondati da foto di piatti,
realizzati secondo un’estetica di
maniera, puntualmente seguite da decine
di commenti più o meno prevedibili: “Mmmmhhh”, “Che bontà!”, “Da
leccarsi i baffi…”, “Buoooonnooooooo!!!!”.
Ma come cavolo fate a dire che è buonooooo,
se non l’avete mai assaggiatoooooo?
Quand’ero studente, ci
divertivamo a fare le torte finte, con la segatura, il gesso e il dentifricio.
Poi le lasciavamo in giro e ogni tanto c’era qualche pirla che le assaggiava.
Il capolavoro fu al matrimonio del mio amico Andrea: una torta di polistirolo, decorata
come quella vera, che venne distrutta in sala prima che gli sposi potessero
tagliarla. Vorrei recuperare le foto delle vecchie goliardate e pubblicarle,
per vedere se qualche “Che buono!” riescono a guadagnarselo…
E’ un dato di fatto che, ormai,
viviamo nella società della apparenze. La vecchia saggezza popolare, che ci ha
regalato massime come “L’abito non fa il monaco”, “Non è tutt’oro quel che
luccica”, "L'apparenza inganna",“The proof of the pudding will be in the eating”, è stata soppiantata
dal mondo dei consulenti di immagine e dei guru della comunicazione. Un mondo
di mature signore che scambiano il botox per la pietra filosofale; di
scienziati che leggono gli indici bibliometrici invece degli articoli; di
aspiranti intellettuali che comprano lauree in dubbie università private, dove
ti fanno dare anche sei esami in un
giorno; di sgrammaticati che girano con la Moleskine pensando di diventare la reincarnazione
combinata di Chatwin ed Hemingway (che peraltro hanno conosciuto solo dalla pubblicità
dell’agendina).
Le fotomodelle non sono nemmeno
più ossessionate da dieta e palestra: ormai, tanto, si photoshoppano.
E si photoshoppano anche i
piatti, perché nella luce vera del ristorante non sono poi così fotogenici.
Togliamo quell’orribile tovaglia e le posate. Facciamo il pomodoro più rosso
e la mozzarella più bianca. Ingrandiamo
un po’ quel pesciolino, così si vede meglio. Alla fine, nutriamo i nostri occhi
di finzioni e, quando andiamo al ristorante, richiamo di restare delusi. Per
credere al cuoco, che dice di aver usato
la vaniglia, c’è chi vuole vedere gli orribili puntini neri macchiare il bianco
candido della crema. A me quei puntini fanno schifo. Mi sembrano escrementi di insetti.
La vaniglia e la vanillina hanno aromi perfettamente distinguibili da chiunque
le conosca. Se il cliente non è in grado di riconoscerle, allora farebbero
benissimo, i cuochi, ad usare una polverina da supermercato, sporcando il
piatto con carrube sbriciolate.
E’ stata ancora la Tv a regalare
alle massaie italiane l’ultima depravazione. E’ tutta colpa del digitale
terrestre, da quando, per soddisfare gli interessi di qualcuno, hanno obbligato
un Paese intero a munirsi di decoder. Improvvisamente, aumentano i canali in
chiaro. Ce ne sono tanti, molti in stie americano, con trasmissioni brevi e
veloci. Su uno di questi, comincia a far capolino nelle sale domestiche il
famigerato Boss delle torte, che confeziona in rapidi passaggi, coloratissime
torte immangiabili e divertenti per i bambini.
Immangiabili perché, chiunque
conosca gli ingredienti che si usano, converrà sulla loro dolcezza stomachevole.
Quanto all’estetica, poi, occorre un discorso a parte. Perché, negli ultimi tre
secoli, la grande pasticceria ha realizzato autentici capolavori di scultura,
lasciandoci trattati, disegni e fotografie a testimoniarlo. Qua invece siamo in
puro stile naïf. Ma tanto, tanto. Tanto che, al confronto, l’ultimo dei naïf
della Bassa reggiana pare Michelangelo. In compenso, è tutto facile da copiare.
Così, schiere di signore appassionate fanno la fortuna dei mercanti, comprando
a peso d’oro ingredienti banali e lavorandoli con stampini preconfezionati. In
pratica, hanno riscoperto la gioia del Pongo di quand’erano bambine. Purtroppo,
il nuovo Pongo è commestibile e, a volte ti invitano a casa. Ah, i cari vecchi
tempi in cui, al massimo, dovevi sorbirti le diapositive delle vacanze… Se
volete trarvi d’impaccio, vi suggerisco di presentarvi con un vassoietto di
mignon della pasticceria più vicina.
Nel Nordovest italico sono ancora
popolari degli squisiti dolcetti chiamati Brutti ma Buoni. Che poi tanto brutti
non sono. Poi ci sono i malfatti, i maltagliati… Retaggio di una civiltà ormai
sepolta? Per carità, non nego che un bell’aspetto fa guadagnare molti punti ad
un buon piatto. Ma, se vi chiedessero di rinunciare a due sensi pur di
assaggiare un manicaretto strepitoso, quali scegliereste? Ho fatto quest’indagine
più volte, nel corso di lezioni e conferenze. Ma alla fine, la scelta ovvia è:
vista e udito (e, a me personalmente, riesce comunque molto duro rinunciare ai
suoni della croccantezza…). Che poi si possa mangiare al buio è stranoto: da
anni, nei paesi tedeschi si è diffusa la catena dei ristoranti Blindekuh, dove
potete vivere l’esperienza.
Quindi, dopo aver dichiarato che
non sono di quelli che considerano l’aspetto visivo puramente marginale (anzi,
ne torneremo, a parlare), sostengo che, attualmente, gli stiamo dando troppa
importanza. E, ribaltando i brutti ma buoni, vi lancio qui una provocazione.
Creiamo una nuova categoria gastronomica: i “Belli ma ciofeche”. Se mi mandate
foto di piatti belli, che si sono rivelati deludenti all’assaggio, mi impegno a
pubblicarli in una rubrica ad hoc, insieme ai vostri commenti.
Sempre
che non mi consideriate indietro con i tempi, come un vecchio amico che ho rincontrato
poco tempo fa. Scopro che è appassionato di gastronomia e ci mettiamo a
parlare. A un certo punto, mi dice: “Secondo me, Acurio è meglio di Adrià”. Si aspetta
una risposta. Candidamente confesso: “Non posso esprimermi, da Acurio non ho
mai mangiato…”. Quello mi guarda come se fossi un extraterrestre. “E che c’entra?
Se è per questo, io non ho mai mangiato nemmeno da Adrià!”. “E allora come fai
a dirlo?”. “Ma è ovvio: mi tengo aggiornato su internet e sui giornali! Ma in che
mondo vivi?”.
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