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sabato 18 gennaio 2014

Se Aristotele avesse cucinato

Lo zucchero si dissolve lentamente nel miele, nella padella larga sulla fiamma bassa. Il fluido bruno si fa sempre più trasparente. Poi inizia a sobbollire. Fra poco sarà il momento di versare gli struffoli. Mi incanto ad osservare, mentre Roberta ogni tanto mi scansa a gomitate. I piatti del Sud sono cosa sua e in cucina, si sa, la democrazia è fuori luogo: l’unico regime ragionevole è la tirannide assoluta.

Non potendo operare, mi permetto di volare col pensiero ai moti microscopici, all'energia e all'entropia, che si trasmettono dalla fiamma alla padella e dalla padella al miele. Alle molecole del miele, che urtano i cristalli di zucchero e ne rompono l’ordine e l’integrità, creando un miriade di scenari ogni volta diversi. E’ il fascino del disordine, che è vario, molteplice, irripetibile. L’ordine è semplice e banale. Forse per questo l’uomo l’ha sempre inseguito: l’ordine è facile da capire e dominare con la mente. Una chimera da ricercare negli angoli più riposti della Natura, un disegno nascosto da svelare sotto l’evidente caos che ci cattura gli occhi.

Ma, perché gli struffoli riescano, dobbiamo catturare il disordine. Dobbiamo bloccare le molecole, impedendo che si vadano a disporre secondo il disegno ordinato dei cristalli, rendendo la copertura dura, opaca e sgraziata. Il trucco, i pasticceri lo conoscono da secoli; da prima che l’umanità parlasse di molecole ed entropia. Basta che il fluido si raffreddi rapidamente: rallentiamo drasticamente le particelle prima che abbiano il tempo di trovare, andandosene a zonzo, la loro posizione ottimale. Rallentiamo, per carità, non blocchiamo totalmente. Ma, quando la velocità è molto bassa, i tempi si allungano a dismisura. Il miele, si sa, ricristallizza, ma a volte ci mette anni.

Queste cose non si studiano tanto a scuola. Sistemi fuori dall’equilibrio, strutture amorfe… parole un po’ vaghe, che sembrano coniate per esorcizzare la complessità. Poche parole per racchiudere un mondo enorme: gran parte della nostra quotidianità e, praticamente, tutta la gastronomia.

Prima non ne parlava nessuno. Adesso la parola complessità spopola sulle riviste scientifiche e sul web. Ci illudiamo di dominarla con la statistica. Ma alla statistica sfugge il singolo esemplare… Il problema è che, quando mangiamo, il nostro mondo sta tutto in quel singolo piatto e non nella produzione media del ristorante.

Forse non è un caso che pure Trilussa, per scherzare sulle statistiche, prendesse proprio un esempio gastronomico:

“…da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all'anno:

e, se nun entra nelle spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perch'è c'è un antro che ne magna due.”

Però, il fascino della cucina sta proprio qua: nella magia dei piatti che non sono mai gli stessi, anche se lo chef e gli ingredienti non cambiano. Nell'arte del cuoco che, invece di studiare leggi e riassunti campionari, deve intuire ogni volta l’unico e l’irripetibile, ed interpretarlo a vantaggio dei sensi.

Ed è per questo che ogni volta resto incantato a guardare lo zucchero che si scioglie nel miele. Lo spettacolo non è mai lo stesso Ed ogni volta imparo qualcosa. La cucina si impara solo con l’esperienza.

Anche la scienza, a dire il vero, dovrebbe nascere dall'esperienza. Ma la tentazione di imporre al mondo i nostri schemi mentali è antica quanto l’uomo.

Ne parlavo qualche tempo fa con Massimo Montanari, durante un viaggio in macchina breve ma stimolante. Una di quelle occasioni che, dopo giorni di grigiore burocratico-istituzionale, ti fanno riscoprire il piacere di discutere e ragionare. Si conveniva che la scienza moderna fosse molto più platonica che aristotelica. Ovvero, che tendesse a descrivere il mondo secondo idee astratte e preconcette, piuttosto che inchinarsi ogni volta all'empiria. Pensavo a “La scuola di Atene” nelle stanze vaticane. Il vecchio con la barba bianca con il dito verso il cielo alla fine ha vinto. La visione semplice e geometrica ha dominato la scienza e l’Occidente. Ha vinto fin dall'inizio, quando Galileo scriveva: 
" questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l'universo,  […]   è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche”

Era evidente a tutti che quelle figure geometriche, in natura, sono rare, se non pressoché inesistenti. Sono invece onnipresenti nelle opere umane. Perché sono estremamente più semplici da pensare e realizzare. Disegnare un quadrato non è come disegnare un albero…

Vent'anni prima, il barbaro non privo d’ingegno s’era premurato di mettere in guardia i posteri: 
"There are more things in heaven and earth, Horatio, Than are dreamt of in your philosophy."

Eppure, ci vollero più di tre secoli prima che Mandelbrot osasse scrivere “Le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni, le linee costiere non sono circonferenze, e le cortecce non sono lisce, né la luce viaggia in linea retta.”

Nonostante le buone dichiarazioni di intenti, la tentazione di preferire libri e teorie allo studio umile e diretto della realtà ammalia gli scienziati ogni giorno.

Come nella storia, che vi ho raccontato tempo fa, dei “guru” della complessità che hanno analizzato migliaia di ricette scaricate dal web e ne hanno tratto solenni conclusioni, senza rendersi conto che i cibi cotti hanno aromi diversi da quelli crudi…

Molto  più  di  recente, un’altra analisi di dati ha interessato anche la gente comune, grazie ad una discussione innescata da Massimo Gramellini sulla Stampa. Si tratta di uno studio, di due ricercatori americani, di alcune caratteristiche delle relazioni sentimentali, attraverso le amicizie di Facebook. Gramellini, da umanista, era contrariato dall’approccio e intitolava il suo Buongiorno “Abbasso gli algoritmi”, scatenando sacrosante reazioni dal milieu scientifico. E’ evidente che gli algoritmi, come tutti gli strumenti, sono neutri. Si possono usare bene o male, e questa è responsabilità dello scienziato. Il problema semmai era un altro: quanto si possono prendere sul serio le relazioni sentimentali dichiarate su Facebook? Dove c’è gente che ha dieci profili con dieci fidanzate diverse. O chi, come il sottoscritto, non si è mai sognato di pubblicare il suo stato di famiglia su un social network. In compenso, tra le ragazzine, va di moda dichiararsi sposate con le amiche. Siamo in trepida attesa di un nuovo guru, che ci illumini sul dilagare dell’omosessualità femminile, supportato dagli incontrovertibili dati oggettivi di Facebook…

Guardo lo sciroppo cambiare lentamente di colore e mi chiedo perché osservare la realtà sia sempre meno di moda. Qualche settimana fa i miei studenti mi hanno spiazzato. Non sapevano che le viti, normalmente, si stringono in senso orario. Nessuno, su una platea di un centinaio di persone. - Forse non avvitate mai? – ho chiesto. –No, avvitiamo, ma ogni volta facciamo la prova. - Questa non è mancanza di cultura. E’ la morte dello spirito d’osservazione. Quasi che fosse impossibile dedurre e imparare qualcosa da soli, se non sta scritto sui libri o in rete. E’ il mondo delle casalinghe che non hanno voluto imparare a cucinare dalle mamme, ma pensano di poterlo fare comprando i libri della Parodi, o visitando i blog di ricette.

Un’ora in più passata in cucina vale più di cento libri. Mi torna in mente Pepe Carvalho con i suoi roghi letterari, mentre indugio ancora davanti al fornello, invece di mettermi alla scrivania. 

Lo sciroppo per me ha un fascino particolare. 

Fu la chiave di volta che mi spinse, tanti anni fa, a mescolare più profondamente la scienza alla cucina. Sui libri leggevo che esiste un limite di solubilità dello zucchero in acqua. Se ne aggiungi troppo precipita sul fondo, come il sale.  Ma io, studente gourmet, passavo pomeriggi interi a candire le scorzette d’arancia prima di coprirle di cioccolato e cacao, seguendo una ricetta di Michel Guérard. Poi variavo sul tema: scorze di cedro ricoperte di cioccolato bianco e cocco grattugiato.

Erano gli anni ’80, e la fisica del non equilibrio e della materia soffice non era ancora popolare. Per cui mi arrovellavo il cervello per capire se sbagliavano i libri, o se sbagliavo io a pensare che nello sciroppo la percentuale di zucchero in acqua violava i limiti di solubilità. 

Un giorno, davanti al solito fornello, arrivò l’illuminazione.  

Quando usi lo zucchero comune, i canditi sono a rischio, perché dopo qualche giorno la copertura ricristallizza. Per evitarlo, i pasticceri aggiungevano un po’ di sciroppo di glucosio. Io, che non avevo i mezzi per procurarmelo, ricorrevo a un vecchio trucco casalingo: aggiungevo un po’ di aceto di mele o di succo di limone. Così, abbassando il pH,  si produceva l’idrolisi del saccarosio, che liberava fruttosio e glucosio e mi evitava l’acquisto di ingredienti più “esotici”.  

Tutto era chiaro! 

Lo sciroppo è uno stato instabile, di non equilibrio, che tende, col tempo a riportarsi nello stato cristallino, di equilibrio. Il glucosio allunga i tempi di ordini di grandezza, ma lo sciroppo resta sempre lontano dall'equilibrio. Al contrario, le leggi sulla solubilità valgono solo per i sistemi all'equilibrio. 

Mi si apriva un mondo nuovo davanti. Decisi che avrei sottratto spazio ai teoremi formali, che mi affascinavano tanto, per dedicarmi a questi stati complessi e quotidiani della materia. Ed iniziai la mia tesi sui frattali…

Raccontavo queste cose a Massimo durante il viaggio in macchina e lui mi disse che gli ricordava da vicino la storia di una suora messicana, contemporanea di Newton, di cui aveva parlato nell'introduzione del suo libro “Il riposo della polpetta”. 

Sor Juana Inés de la Cruz era una donna troppo avanti per i suoi tempi. Oggi viene ricordata come la maggior poetessa messicana dell’epoca. Ma era un’intellettuale a tutto campo, che non poneva confini tra scienze umane e naturali, per cui si dedicava a tutto ciò che poteva accrescere la sua conoscenza: letteratura, matematica, astronomia, architettura, geometria, fisica, lingue, musica… E, per ragioni diverse, anche alla cucina. La sua superiora, che considerava quasi diabolico tutto quell'interesse di una donna per lo studio, la puniva spesso allontanandola dai libri e relegandola ai lavori di cucina. Grazie alla superiora ottusa, o forse al vescovo che la comandava, oggi possediamo una preziosa raccolta di ricette messicane del ‘600 che Sor Juana Inés ci ha voluto lasciare. Ma la sua eredità più bella, forse, sta in quelle poche righe indimenticabili con sui suggella la sua “Respuesta de la poetisa a la muy ilustre Sor Filotea de la Cruz” [1] e con cui voglio accomiatarmi:

«E che cosa potrei raccontarvi, Signora, dei segreti che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo che un uovo si rapprende e frigge nel burro o nell'olio e, al contrario, si disgrega nello sciroppo; vedo che, perché lo zucchero si conservi fluido, basta aggiungervi una piccolissima parte d’acqua in cui sia stata messa una cotogna o un altro frutto aspro; vedo che il tuorlo e l’albume di uno stesso uovo sono così contrari, che per lo zucchero possono venire usati separatamente ma mai insieme.   Non voglio tediarvi oltre con queste cose insignificanti, che riferisco solo per darvi un’immagine completa del mio carattere, e che, credo, vi faranno ridere;  ma, Signora, che cosa possiamo sapere noi donne se non filosofie da cucina? Aveva ragione Lupercio Leonardo, secondo cui si può benissimo filosofare e preparar la cena. E io dico spesso pensando a tali bagattelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più»


Note:

 [1] si tratta in realtà di un’ironica polemica contro il vescovo ottuso, che di nome faceva Manuel Fernández de Santa Cruz