-Annegati nel burro e asciugati col
formaggio! - Mario ripeteva queste parole con gli occhi terrorizzati, cercando
di spiegarci perché avrebbe evitato volentieri la tortellata di San Giovanni.
Per lui, ascetico fisico teorico, il cibo era un'ineluttabile necessità. E non
riusciva proprio a capire come potessimo costruire un congresso scientifico
intorno a una tradizione gastronomica. Ma la verità era quella. Il convegno
nazionale di fisica statistica era nato così. Un gruppo d'amici che decide di
ritrovarsi insieme, per parlare di scienza di giorno, e godersi tortelli e
rugiada, in campagna, la sera.
La sera del 23 giugno, ovviamente,
quando tutta la provincia di Parma si sente in dovere di lasciare l'afa
domestica e riunirsi in tavolate campestri, aspettando che il fresco della
notte più breve dell'anno faccia finalmente condensare sui prati l'umidità
soffocante dell'aria per produrre l'agognata rugiada. E, nell'attesa, si
mangiano i tortelli.
I tortelli d’erbette (al plurale,
perché le erbette in dialetto hanno senso solo al plurale) non hanno nulla a
che fare con i più celebri tortellini che si mangiano a Modena e Bologna.
Differiscono innanzitutto nella forma. I nostri sono rustici rettangoli di
circa 4-5 centimetri, con tre lati seghettati ed uno ripiegato. Il ripieno ne
rigonfia il centro verso l’alto, aumentandone l’asimmetria. Ho sempre pensato
che una parte del loro fascino stia proprio in queste piccole irregolarità, che
li rendono diversi uno dall’altro. Sono grandi, e nel piatto li puoi contare:
sette, otto, nove, dieci… Li puoi scrutare uno ad uno prima di affrontarli.
Sono grandi, e per mangiarli devi tagliarli in due con la forchetta, e metterne
a nudo il ripieno bianco punteggiato di verde. Troppo grandi per nuotare in una
salsa fluida e sgusciare uno sull’altro. Si adagiano sul piatto e lì restano,
tranquilli, statici, orizzontali, finché la tua forchetta non li va a cercare.
Un sugo fluido cadrebbe inesorabilmente sul fondo, denudandoli. Per questo
bisogna rivestirli di un condimento ruvido, che li avvolge come un intonaco
stuzzicante. Un sospensione densa di parmigiano grattugiato in burro fuso,
diremmo nel linguaggio scientifico di oggi. I nostri vecchi erano più bravi: “annegati
nel burro e asciugati col formaggio”. Appunto.
Il formaggio, va da sé, è quello
che fuori dai confini si chiama Parmigiano Reggiano. E che qui, fin da bambini,
impariamo a chiamare semplicemente “il formaggio”. Così come le erbette non
sono generiche erbe, ma solo e soltanto le foglie della bietola. Così come
nella Bassa il Po non si chiama Po. Si chiama “il Fiume”. E se chiedete a un
contadino di che fiume sta parlando, vi guarda come poveri idioti domandandovi “Ma
quanti fiumi vedi qua attorno?”.
Sono la nostra bandiera. La ricetta
della tradizione. E, proprio per questo non sono una ricetta, ma mille e mille
ricette diverse, declinate secondo le sfumature dei paesi, delle famiglie,
delle cuoche. “Come li fa i tortelli tua mamma? Tua nonna? Tua moglie?”.
Piatto femminile, per mani
delicate. Oggi le cuoche di casa vanno scemando e molti si rifugiano nelle
gastronomie (nel senso di negozi…). Due anni fa, la Gazzetta di Parma ebbe l’idea
di inserirmi in una simpatica giuria che, assaggiando alla cieca, doveva
classificare i tortelli delle gastronomie della città. Fui troppo selettivo…
(taccio il resto). Ma che ci devo fare? Sono abituato a mangiare bene. E quando
li voglio buoni li facciamo in casa. Con il burro e il formaggio migliori, che
andiamo a prenderci nel caseificio di montagna. E’ importante il formaggio. Non
solo perché sa di formaggio. Contiene la giusta dose di glutammato di sodio, e
ingentilisce e migliora il sapore, checché se ne dica. E poi la pasta. La
voglio impastare a mano, per un’ora. A macchina è diversa. Scientificamente
diversa. E qui non ammetto discussioni. Il glutine si rinforza dove
schiacciamo. La macchina schiaccia a caso. La macchina spara nel mucchio. Le
mani toccano, capiscono, agiscono dove serve. La mia pasta fatta a mano è
uniforme, tenace sotto i denti anche se la tiri sottile. Col mattarello. Perché,
con la macchina, per stendere devi girare, ed è la distanza fra i rulli che decide
la compressione. Col mattarello, sei libero di scegliere pressione e velocità.
E la sfoglia è diversa. L’abbiamo perfino simulato al computer. Chissà, magari
qualche volta lo pubblicheremo…
Per ora pubblico una piccola
chicca. La ricetta di mia madre, copiata tale e quale dalla pagina scritta a mano
del quadernetto dalla copertina arancione.
PASTA TORTELLI: 700 gr farina, 6 uova, Sale , Acqua q.b.
RIPIENO TORTELLI: 350 gr ricotta
nostrana, 250 ricotta romana , 350 gr formaggio grana, 2 cucchiai di
mascarpone, 1 mazzolino di erbette, 5 o 6 tuorli, Sale, Noce moscata.
Scandalizzati dall’imprecisione
delle dosi? Il bello è proprio lì. I pasticceri bravi le uova le pesano. I pasticceri
bravi hanno la fortuna di lavorare in locali climatizzati a temperatura e
umidità controllate. Una cuoca piemontese una volta mi confessò che la quantità
di uova che metteva nei tajarin dipendeva dal tempo. “Se piove ce ne vanno meno”.
“Signora, lei ha gli occhi dello scienziato” - le dissi. Quando l’aria è umida,
la farina, fine e igroscopica, è molto più idratata.
E il mazzolino d’erbette? Quello
non si pesa. Si tolgono le foglie. Si fanno bollire. Si strizzano e se ne prendono
due pugni. La mano della cuoca fa la differenza!
Forse non vengono mai esattamente allo
stesso modo. Ma il fascino della cucina è anche questo. Ogni volta che mi siedo
alla tavola di un grande cuoco ed ordino un piatto già conosciuto, mi chiedo: “Come
mi stupirà stavolta?. Come quando
ascolto la musica dal vivo…
E stasera, è ovvio, si va in
campagna.
Come saranno i tortelli quest’anno?
"Annegati nel burro, asciugati col formaggio..." |
Inserisco un link a questo Post domani (20 agosto 2014) nel mio Blog www.piccoliviaggimusicali.blogspot.it in cui cito la tradizione di Parma della tortellata di San Giovanni, parlando di... Mussorgsky... perchè in Russia la Notte di San Giovanni è la notte delle Streghe
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