lunedì 6 agosto 2012

Quei ragazzi degli anni '80

La notizia della scomparsa di Renato Nicolini mi ha colto all’improvviso, mentre, dopo le fatiche d’Ercole di luglio, fuggivo verso il mio rifugio, sperduto tra le montagne pusteresi.
I miei pensieri stavano indugiando compiaciuti sulla bottiglia di latte appena munto, che il mio amico Erich mi avrebbe fatto trovare davanti alla porta di casa, ma d’un tratto si sono trovati a cambiare direzione. Nella mente ha cominciato a risuonare la voce di Don McLean che cantava “the day the music died”.
 – Ecco – mi son detto - adesso sono proprio morti gli anni ’80 -.  Quegli anni che chiamavano dell’effimero, del riflusso, di tutto quello che volete, ma che restano indimenticabili. E non solo perché la mia generazione aveva vent’anni…
Era finito il liceo, con le lunghe assemblee, l’impegno, gli attentati, gli scioperi, le canzoni di lotta e la nouvelle cuisine. Gli anni dell’università iniziavano all’insegna delle feste, e Renato Nicolini era il nostro modello, il nostro mito, il moderno Taliarco delle Estati Romane, che ci indicava un modo nuovo di “impegnarci”, leggero, ma allegro, vitale, creativo.
Lezioni al mattino, e alla sera teatro, cinema, musica, cucina. Inverni nebbiosi scaldati da chitarre e polenta. Estati d’esami, notti calde per le strade, e i primi fumi freschi dell’azoto liquido. Tutto era gioco, la scienza come la vita. I ghiaccioli di grappa per pelare la lingua ai rivali, la grappa nell’acqua della moca per inventare il caffè supercorretto.  Alle feste mi dividevo tra i musici e i cucinieri, ma alla fine in cucina entravo sempre. E lì si produceva, si improvvisava, si modificava, un po’ per scienza e un po’ per caso. Dopo una notte bianca di caffè salati, ci trovammo a lezione con la cravatta bianca macchiata di vino, in mezzo ai serissimi e compassati matematici. La sera prima io ed Emilio preparavamo il sugo per la pasta lanciando in padella piselli e pezzetti di prosciutto dalla stanza accanto. La povera Claudia, sventurata padrona di casa, ricorda ancora oggi le pulizie del giorno dopo. Mitiche variazioni sulla carbonara, che preparavo con due condimenti indipendenti, uno cotto e  uno crudo, da unire all’ultimo. Era di moda. Gli Spliff cantavano “Carbonara e una Coca Cola”. Noi mescolavamo in pentola tutto quello che capitava. Zuppe scientifiche e metafisiche. Zuppa Romana! Ecco che mi torna in mente l’altra canzoncina teutonico-demenziale, grazie al divertentissimo libro omonimo che il suo autore, Sebastiano Zanetello, mi ha regalato per allietarmi l’estate. “Maccheroni, cannelloni, peperoni, eccola per me: zuppa romana!” cantavano gli Schrott nach Acht, e poi finivano con l’ineffabile “Non temare di provare culinare!”. No, noi non “temavamo”. E nemmeno gli altri avevano paura! Erano gli anni che gli intellettuali si facevano cuochi. Se trionfava l’effimero, che c’è di più effimero di un piatto che sta per essere mangiato? Usciva il primo numero del Gambero Rosso, come supplemento del Manifesto. Renzo Arbore ci teneva svegli con “Quelli della notte”. Harold McGee pubblicava “On food and cooking”.  E, di là dal Mare Nostrum, in un ristorantino di Cala Montjoi, prendeva servizio come chef un giovane brillante che si chiamava Ferran.
Ciao, meravigliosi anni ’80. Tutto è iniziato da voi.






Questa la spiego, perché in pochi indovinerebbero...
Ferran, Albert e Andy, cucina del Bulli, anni '80



1 commento:

  1. Trovare il mio nome incastonato fra quelli di Renato Nicolini e di Ferran Adrià è stata per me una cosa del tutto inaspettata, una piacevole sorpresa. Grazie degli apprezzamenti, professore!

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