I miei pensieri stavano
indugiando compiaciuti sulla bottiglia di latte appena munto, che il mio amico
Erich mi avrebbe fatto trovare davanti alla porta di casa, ma d’un tratto si sono
trovati a cambiare direzione. Nella mente ha cominciato a risuonare la voce di
Don McLean che cantava “the day the music died”.
– Ecco – mi son detto - adesso sono proprio
morti gli anni ’80 -. Quegli anni che
chiamavano dell’effimero, del riflusso, di tutto quello che volete, ma che
restano indimenticabili. E non solo perché la mia generazione aveva vent’anni…
Era finito il liceo, con le
lunghe assemblee, l’impegno, gli attentati, gli scioperi, le canzoni di lotta e
la nouvelle cuisine. Gli anni
dell’università iniziavano all’insegna delle feste, e Renato Nicolini era il nostro
modello, il nostro mito, il moderno Taliarco delle Estati Romane, che ci
indicava un modo nuovo di “impegnarci”, leggero, ma allegro, vitale, creativo.
Lezioni al mattino, e alla sera teatro,
cinema, musica, cucina. Inverni nebbiosi scaldati da chitarre e polenta. Estati
d’esami, notti calde per le strade, e i primi fumi freschi dell’azoto liquido.
Tutto era gioco, la scienza come la vita. I ghiaccioli di grappa per pelare la
lingua ai rivali, la grappa nell’acqua della moca per inventare il caffè
supercorretto. Alle feste mi dividevo
tra i musici e i cucinieri, ma alla fine in cucina entravo sempre. E lì si
produceva, si improvvisava, si modificava, un po’ per scienza e un po’ per
caso. Dopo una notte bianca di caffè salati, ci trovammo a lezione con la cravatta
bianca macchiata di vino, in mezzo ai serissimi e compassati matematici. La
sera prima io ed Emilio preparavamo il sugo per la pasta lanciando in padella piselli
e pezzetti di prosciutto dalla stanza accanto. La povera Claudia, sventurata padrona
di casa, ricorda ancora oggi le pulizie del giorno dopo. Mitiche variazioni
sulla carbonara, che preparavo con due condimenti indipendenti, uno cotto e uno crudo, da unire all’ultimo. Era di moda. Gli
Spliff cantavano “Carbonara e una Coca Cola”. Noi mescolavamo in pentola tutto
quello che capitava. Zuppe scientifiche e metafisiche. Zuppa Romana! Ecco che mi torna in mente l’altra canzoncina
teutonico-demenziale, grazie al divertentissimo libro omonimo che il suo autore,
Sebastiano Zanetello, mi ha regalato per allietarmi l’estate. “Maccheroni,
cannelloni, peperoni, eccola per me: zuppa romana!” cantavano gli Schrott nach
Acht, e poi finivano con l’ineffabile “Non temare di provare culinare!”. No,
noi non “temavamo”. E nemmeno gli altri avevano paura! Erano gli anni che gli
intellettuali si facevano cuochi. Se trionfava l’effimero, che c’è di più
effimero di un piatto che sta per essere mangiato? Usciva il primo numero del
Gambero Rosso, come supplemento del Manifesto. Renzo Arbore ci teneva svegli
con “Quelli della notte”. Harold McGee pubblicava “On food and cooking”. E, di là dal Mare Nostrum, in un ristorantino
di Cala Montjoi, prendeva servizio come chef un giovane brillante che si
chiamava Ferran.
Ciao, meravigliosi anni ’80.
Tutto è iniziato da voi.Questa la spiego, perché in pochi indovinerebbero... Ferran, Albert e Andy, cucina del Bulli, anni '80 |
Trovare il mio nome incastonato fra quelli di Renato Nicolini e di Ferran Adrià è stata per me una cosa del tutto inaspettata, una piacevole sorpresa. Grazie degli apprezzamenti, professore!
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