Come tutto ciò che è umano, anche
le tradizioni hanno un inizio, legato ad un nome e ad un luogo. E, soprattutto,
ad un’innovazione. E l’inizio
difficilmente si perde nella notte dei tempi.
Correva l’anno 1860 e l’Italia stava
per essere unificata. A Bursa, importante città turca a un centinaio di chilometri
a sud di Istanbul, il 12enne Iskender Efendi lavorava già nel ristorante di
famiglia. Trafficando insieme al nonno, per migliorare il loro agnello allo
spiedo, ebbe un’idea innovativa. Anzi,
tre, come raccontano i suoi eredi.
La prima, consiste nel ripulire l’animale,
tagliato a pezzetti, dalle ossa e da tutte le parti coriacee e meno nobili,
prima di metterle a marinare ed infilarle sullo spiedo. La seconda, che è la
più caratterizzante, è quella di orientare lo spiedo stesso in verticale,
facendolo girare davanti a un braciere altrettanto verticale, appositamente
costruito. La terza, di importanza non trascurabile, consiste nel tagliare la superficie
dello spiedo cotto a fette sottilissime con un coltello lungo ed estremamente
affilato.
Le innovazioni non erano niente
male, ed il nuovo piatto divenne popolare. A Bursa iniziarono a chiamarlo İskender
Döner Kebabı, ovvero l’arrosto rotante di Alessandro. Con gli anni, il piatto
si diffuse in tutta la Turchia e il nome per comodità venne abbreviato, omettendo
il povero İskender-Alessandro che l’aveva inventato. Poi gli emigranti Turchi
lo diffusero nel mondo. In Europa, arrivò prima di tutto in Germania, dove la
comunità turca è sempre stata numerosa. E a me capitò di assaggiarlo proprio
lì, prima ancora che in Turchia, in anni in cui in Italia non era ancora
diffuso.
Mi ricordo di aver osservato a
lungo, come incantato, la lenta lavorazione ed il servizio, che per me erano
del tutto nuovi. L’assetto verticale è geniale. Il grasso, sciolto dal calore, si
diffonde lentamente tra i pezzetti di carne, mentre scivola verso il basso. Li
impregna, li intenerisce, li aromatizza. Poi, se ne va a cadere lontano dal braciere,
evitando i fumi e le puzze di bruciato del barbecue orizzontale, che non
giovano all’aroma delicato della pietanza.
Ma l’aspetto che mi affascinava
di più, fin da allora, era l’intima ragione geometrica di quella
preparazione.
Trascurata da trattati e manuali,
ma conosciuta istintivamente dal cuoco, la geometria del cibo, il gioco di
rapporti e proporzioni tra le sue misure, la sua forma esterna ed interna, ne
determina in maniera decisiva le qualità gastronomiche.
Il Döner Kebab è arte suprema
delle superfici.
Il calore e la marinatura entrano
nei pezzi di carne attraverso la loro superficie. Le forme regolari e compatte
ne inibiscono la penetrazione. Quelle più sottili, spezzettate, irregolari, la
favoriscono.
Il calcolo variazionale ci
permette di dimostrare che, a parità di volume, la sfera, la forma compatta per
eccellenza, è quella che presenta la superficie minore. Le sfere cuociono
lentamente e sono problematiche da marinare. Le patate intere non si friggono.
La pizza, che cuoce rapidamente, è piatta e sottile.
Iskender taglia l’agnello a
pezzetti sottili ed esalta la marinatura.
Ma la sua trovata più geniale sta
nella cottura e nel servizio. Anche la tostatura, che si produce negli arrosti
con le alte temperature, è un effetto di superficie. Per quanto il kebab sia
affusolato, la sua superficie non conta poi tanto rispetto al volume. Ma se,
per preparare ogni porzione, mi limito a “rasare” la scura e profumata
superficie arrostita, nel piatto mi ritrovo un fantastico concentrato di aromi.
E, mentre viene il turno del cliente successivo, la tostatura ha tutto il tempo
di riformarsi. A volte, l’intuizione di
un ragazzino supera prediche e trattati di tanti scienziati…
I cuochi, però, i rapporti
superficie-volume, li controllano da sempre. Tagliare e sminuzzare è il metodo
più ovvio per aumentare la superficie totale. Vi siete mai chiesti perché, nel
soffritto, le verdure si tritano fini fini? E perché si trita la cane del ragù?
O, ancora, perché la polvere più fine dell’espresso dà aromi più intensi
rispetto alla moka?
D’alta parte, la pasta, oltre uno
spessore critico non cuoce, oppure scuoce. Gli spaghetti, oltre un certo
spessore, diventano bucatini, ed offrono all’acqua calda tutta la superficie
interna. I fusilli, dal diametro audace, sono percorsi da quel solco spiraleggiante
che ne moltiplica spaventosamente la superficie. Le patatine fritte in busta
sono tutta superficie. Poi sono arrivati i Pringles, che aumentano ulteriormente
l’effetto, adottando come forma una superficie a curvatura negativa, il paraboloide
iperbolico.
A volte, sulla superficie, è
racchiuso tutto lo spirito di un piatto. Penso alle fritture e, soprattutto
alle fritture impanate. La cotoletta
austriaca è sottile. Il pangrattato quasi vince sulla carne. L’arancino siciliano
è compatto: qui deve vincere il ripieno.
La cotoletta alla milanese è
dominata dalla spessa fetta di carne di vitello, morbida e gustosa (quando il
cuoco è degno). La crosticina impanata, però fa la differenza. Peccato che, a
causa dello spessore, passi un poco in secondo piano. Se non fosse, ovviamente
per i bordi che, guardacaso, di solito sono i pezzi preferiti. Riflettendo su
tutto questo, anni fa, Gualtiero Marchesi ha elaborato una delle sue invenzioni
più geniali. Ha tagliato la carne a bocconi, impanandoli e friggendoli uno ad
uno, per poi ricomporre, o quasi, la cotoletta nel piatto.
Caro Gualtiero, chapeau!
Permettetemi di rendere omaggio così
al grande maestro ed amico, che il 10 ottobre riceverà finalmente la laurea ad
honorem, proprio dalla mia università.
Iskender Efendi |
Al di là delle geometrie, che sono fondamentali, il post mi ha fatto venire l'acquolina in bocca.
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