La pittoresca valle dell’Ahr, che
gli italiani, dal Ventennio, chiamano col nome fantasioso di Aurina grazie a
quell’invasato di Ettore Tolomei, occupa l’estremo settentrionale del bacino
idrografico dell’Adriatico.
Oltre la catena di montagne e (un
tempo) maestosi ghiacciai, che ne chiudono a corona la parte più alta, si apre
un mondo nuovo di valli, fiumi e strade, che conducono dolcemente fino a
Salisburgo e al Nord più lontano.
Ora, puoi arrivare fino ai piedi
di quei monti percorrendo una comoda strada asfaltata, che termina in un ampio
posteggio. Ma, solo qualche decennio addietro, la situazione era diversa. Una
stradina stretta e tortuosa correva ai bordi del fiume, traversandolo, verso la
fine, su un debole ponte. A fine estate, molto spesso, le piogge gonfiavano le
acque, che si portavano via il ponticello, e la parte alta della valle restava
isolata per giorni. I turisti erano rari e, bussando alla porta di contadini
cordiali, riuscivi a procurarti piccoli gioielli: un vero speck, con due dita
di morbido grasso che catturava gli aromi delicati dei legni pregiati dell’affumicatura,
e, qualche volta, il Graukäse. Sono sapori perduti della mia infanzia. Adesso i
negozi pullulano di ignobili speck magri, prodotti per le dame di città
ossessionate dal colesterolo, abituate a cibarsi di salutari schifezze. Il Graukäse,
dal canto suo, non è più una rarità. Tradotto letteralmente come “formaggio
grigio”, ad uso dei profani, è diventato un presidio di Slow Food nel 2005. E
da allora è inflazionato. Lo trovi nei supermercati - fatto che, qualche anno
fa, sarebbe suonato come fantascienza – e nei titoli dei libri. Ma non è più lo stesso.
Il Graukäse lo facevano i
contadini, non i caseifici, con il latte scremato che avanzava dalla produzione
del burro. Lo lasciavano al caldo per un giorno o due finché non coagulava spontaneamente.
Una coagulazione acida, ovviamente, provocata da diversi fermenti, presenti nel
latte, nel bidone, nell’aria. Poi rompevano la cagliata con un cucchiaio o un
mestolo e la scaldavano in un paiolo per asciugarla dal siero. Niente
termometri: la temperatura, che non supera mai i 55 gradi, si provava
immergendo il gomito nudo nel paiolo.
Sembra il ritratto perfetto di prodotto pienamente autoctono. Del
territorio. A chilometri zero, come si usa dire oggi, con un linguaggio scialbo
che sa di concessionaria automobilistica.
E invece no, perché proprio a
questo stadio della preparazione entra in gioco l’ingrediente magico, il jolly,
il deus ex machina senza il quale il Graukäse non si fa. Senza il quale non si
fa lo speck, e nemmeno i crauti. E’ lui, l’oro bianco degli antichi. Il sale,
di cui, tra i monti della valle dell’Ahr, non c’è traccia.
La valle, a dire il vero, era
celebre per le sue miniere. Non d’oro, come il nomignolo tolomeico lascerebbe
supporre, ma di rame. Miniere di rame pregiato, fonte di lavoro per gli uomini
del luogo, finché, alla fine dell’800, non dovettero chiudere, vinte dalla
concorrenza cilena. Per evitare il tracollo della piccola economia locale, i
valligiani si inventarono nuovi mestieri: gli uomini a intagliare il legno, le donne
a lavorare al tombolo a fuselli. Nacque così la tradizione dei pizzi e delle
sculture in legno, che oggi attira e seduce i turisti. Nacque non nella notte
dei tempi, ma poco più di un secolo fa.
Circa cent’anni prima, nascevano
altri piatti della tradizione locale, quando tra quei monti arrivò,
sponsorizzata da Parmentier, la patata, e divenne parte dell’alimentazione
quotidiana molto più del pane, che, come abbiamo visto, si preparava solo poche
volte all’anno.
Ma anche le patate, è difficile
mangiarle senza sale…
L’oro bianco non era poi troppo
lontano. C’era l’imbarazzo della scelta: o scavalcare le montagne ed arrivare
fino ad Hall in Tirolo, o ad Hallein nel Salisburghese, oppure scendere in
Pusteria, infilarsi nella valle di Landro e, traversando il Cadore, arrivare a
Venezia. La scelta, in realtà, non la facevano i valligiani, ma i mercanti.
Secondo le oscillazioni di dazi e gabelle, stabilivano il percorso più
conveniente. Accadeva così che, a volte, il sale marino dell’Adriatico salisse
da Venezia alla Baviera. Altre volte, il sale celtico delle miniere austriache
scendeva fino al mare. La via più conveniente per i commerci percorreva proprio
la valle dell’Ahr. Era la celebre Salzweg, che gli italiani battezzarono anche
strada d’Alemagna. Giunta al bacino sorgentizio dell’Ahr, risaliva le ripidi
pendici dei monti per arrivare a varcare lo spartiacque al valico del Krimmler
Tauern, a 2633 metri sul livello del mare.
Il sentiero lastricato di pietre
esiste ancora oggi. Non più frequentatissimo dagli escursionisti, da quando non
esiste più il rifugio nei pressi dal valico, ma riscoperto da avventurosi
mountain bikers. Se ci affidiamo alle cronache
antiche, però, dobbiamo dedurre che, un tempo, sui pendii selvaggi si doveva
stagliare una colonna ininterrotta di uomini e muli, che trasportavano quantità
di merci documentate ed impressionanti.
Qualche anno fa, uno dei tanti
ministri da cui ci ritroviamo la sventura di essere governati, aveva avuto la
bizzarra idea di rispristinare la Salzweg in chiave moderna, tracciando un’ampia
autostrada e scavando un bel tunnel sotto al Krimmler Tauern. Penso che dobbiamo ringraziare l’autonomia
del Sudtirolo per averci preservato da una simile impresa.
Il salgemma e il sale di salina
sono diversi, molto diversi. Ma i contadini non avevano margini di scelta:
nello speck, nel formaggio, nei crauti, nel pane, sulle patate, sulla rara
carne, sulle uova, finiva il sale che passava il convento, ovvero che portavano
i mercanti. Alla faccia del mito del territorio, la gastronomia è sempre stata
anche figlia, suddita e regina del commercio e dei mercati. Le vie delle spezie
fin dall’antichità portavano i profumi di mondi lontani, e il buon Escoffier
non avrebbe inventato la Pesca Melba, se il generale gourmet Lucio Licinio
Lucullo non si fosse portato in Italia il pesco, tornando dalla guerre
mitridatiche.
Il Krimmler Tauern, quest’estate,
era più secco che mai. Delle cime bianche che, anni fa, lo incoronavano,
restava solo qualche piccolo ricordo. I
ghiacciai si stanno sciogliendo. Qualche chilometro più a Est, il fiume di
ghiaccio del Pasterze, sul Grossglockner, era sciolto. Il lago di Misurina si
stagliava su un Sorapiss totalmente grigio. Il clima, come sempre, sta
cambiando. Dopo il picco di freddo ottocentesco, la terra si riscalda. Sul mio
balcone cresce l’ulivo. Le mucche sui prati in riva all’Ahr mangiano erbe e
fiori diversi da quelli d’un tempo. Il latte è diverso. Il Graukäse è diverso.
Il sale, forse, è quello del discount. I maiali sono magri per compiacere le
dame di città. E io non potrò mai assaggiare le specialità degli antichi romani
a base di laserpicium, perché i
nostri avi ghiottoni ne hanno mangiato tanto da farlo estinguere.
Chi se ne importa? Loro non hanno
mai potuto provare la delizia del gelato estemporaneo di latte vero…
Πάντα ῥεῖ
Graukäse in un abbinamento classico |
Vena di salgemma nelle miniere di Hallein |
Il Krimmler Tauern oggi. |
Strade del sale, strade della Storia. Estate 1947. Gli Ebrei sopravvissuti ai Lager nazisti arrivano in Italia varcando clandestinamente il Krimmler Tauern. |
quel pane nero della prima foto.........
RispondiEliminaQUEL pane.....
AMMMMMMORREEEE ♥♥♥
Bellissimo post!
RispondiEliminaSono stato, anni fa, in valle Aurina ma solo due giorni. Era ottobre ma ho fatto lo stesso delle belle passeggiate fino in Austria. Non sapevo nulla della storia che racconti e soprattutto mi è sfuggito il Graukäse che dalla foto sembra buonissimo: devo rimediare.
Saluti Nicolò