Tranquillizzatevi. Non sono
diventato un fan della James. Cinquanta
sfumature di blu è il titolo, ironico e allusivo, che Roberta Razzano ha
scelto per il suo nuovo evento di Food
Art. Il mio laboratorio, come altre volte in passato, ha collaborato alla
realizzazione del progetto, curando gli aspetti tecnici. Ma, in quest’occasione
il lavoro è stato più impegnativo e appassionante, e val la pena di
raccontarlo.
Per capire il percorso seguito, occorre
qualche premessa. L’idea di Food Art
per Roberta significa, prima di tutto, unicità e personalizzazione: ogni
commensale deve vivere un’esperienza sensoriale diversa dagli altri, pur
restando all’interno di un’idea comune. Ovvero, ogni singolo piatto, ogni
bevanda, sarà un’irripetibile variazione su un tema. Mi direte: è normale! Anche
due piatti di spaghetti al pesto sono sempre diversi uno dall’altro. Verissimo.
Ma la differenza non è voluta né studiata e non è nemmeno tanto marcata. Qui,
al contrario, interviene l’azione del designer, che pensa e progetta le
differenze e le amplifica ad arte. L’intervento dell’artista-designer è
dichiarato e visibile. Ma, a differenza del consueto concetto di design, mancano
la standardizzazione e la ripetitività: la stessa idea si concretizza in mille
forme diverse.
O in cinquanta sfumature, se vogliamo…
Perché il blu? Il blu è il colore
antialimentare per antonomasia. Non
esistono, in natura, cibi blu. Se uso il blu, sto dichiarando apertamente: qui
c’è lo zampino dell’uomo e della tecnica. Voglio che si noti. Mi serve per
richiamare l’attenzione sull'intervento del designer. Di solito, in
pasticceria, questo effetto è prodotto dalla scelta di forme geometriche regolari.
Ma, se opto per forme complesse e irregolari per differenziare le preparazioni,
il blu mi riporta con forza all'arte e all'artificio.
Queste erano le premesse che Roberta
ha dichiarato al Laboratorio. Poi ha chiesto molto di più. Voleva che,
stavolta, le differenze non si vedessero solo con gli occhi, ma si percepissero
con tutti i sensi possibili. Soprattutto, che permanessero anche in bocca. Chiedeva
se saremmo riusciti a preparare un drink, perfettamente liquido, ma disomogeneo,
formato da tante parti distinte non mescolate.
-Esiste già il B52 - azzardo- con
tutta la famiglia dei layered shots.-
Sono i celebri cocktails a strati orizzontali, in cui liquidi di diversa
densità (e tensione superficiale!) vengono sovrapposti con cura, in modo da non
lasciarli miscelare. Noterete che ho voluto sottolineare il ruolo della
tensione superficiale. Si legge spesso in giro qualche spiegazione strampalata,
che cita solo la differenza di densità. Ma voi sapete bene che l’acqua e l’alcol,
pur avendo densità diverse, si mescolano che è un piacere…
Certo, esistono i cocktails a
strati, ma Roberta voleva qualcosa di molto più complesso. Ci chiedeva la
possibilità di creare disegni tridimensionali con un liquido all'interno di un
altro liquido. Anzi, disegni creati con
tanti liquidi diversi, ognuno dei quali porta la sua sfumatura di
colore, aroma, sapore e consistenza.
-Non è impossibile.- le dico, senza
sbilanciarmi troppo. In realtà era piuttosto difficile, ma le sfide mi
divertono. Iniziamo gli esperimenti. Raduno i più giovani del laboratorio. Per
questo compito servono ragazzi con poca esperienza e molto entusiasmo. Mi è
capitato troppo spesso imbattermi in esperti scettici che rispondono un secco
no alla minima proposta di novità. Li metto a preparare ogni sorta immaginabile
di fluidi non-newtoniani, perché è evidente che l soluzione deve venire da lì.
I fluidi non-newtoniani possono comportarsi come liquidi a grandi scale
spaziali e come solidi a piccole scale. Un po’ come la crema pasticcera, che se
ne sta immobile su un cucchiaino da caffè, ma scorre e fluisce benissimo se la
versiamo da un secchio. Nel nostro caso, ovviamente, le scale in gioco devono
essere più piccole: il secchio diventa un bicchierino da shot.
Fluido non-newtoniano, però, è un
termine troppo generico. Qui bisogna regolare mille dettagli: densità, tensione
superficiale, viscosità… Per di più queste strutture, in genere, sono anche abbastanza
instabili e cambiano nel tempo. Quindi, mano al cronometro e misuriamo le loro
vite medie!
Non è tutto. Uno degli aspetti
più affascinanti della materia soffice riguarda la dipendenza delle strutture
dal processo di produzione. Se parto da due basi liquide identiche e le
mantengo per tempi diversi a temperature diverse, prima di riportarle a temperatura
ambiente, ottengo due fluidi dalle proprietà nettamente distinte. Capirete che
il lavoro non manca…
Alla fine ce l’abbiamo fatta.
Sabato 8 dicembre, all’Hub Cafè di Parma, è andato in scena l’evento-aperitivo Fifty shades of blue. I ragazzi del
laboratorio hanno assistito Roberta nella preparazione dei drink, mentre in
sala trionfava il blu, in tutte le sue
forme. Sugli schermi, veniva proiettato un video, in cui abbiamo raccolto
diversi spezzoni filmati dei nostri primi esperimenti, che vi ripropongo, in
versione ridotta, qui sotto.
La gente guardava con sorpresa
quei bicchieri strani, poi non resisteva alla curiosità ed assaggiava. In bocca
arrivava la nuova sorpresa, perché sapori ed aromi cambiavano in un modo ogni
volta nuovo. Note di cedro, viola, anice, menta e amarena, il dolce, l’acido, l’amaro,
il fluido e il liquoroso si avvicendavano senza mai ripetersi, e senza annoiare
i sensi.
C’è chi ha bevuto una decina di bicchieri.
La mia idea di mantenere basso
il grado alcolico si è rivelata provvidenziale…
E’ stato un successo e tutti si
sono divertiti.
E questa
è la cosa più importante, perché la gastronomia dev'essere prima di tutto un piacere!
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Grazie a tutti i giovani del LAB:
(in rigoroso ordine alfabetico) Filippo Porreca, Forinda Gatti, Gennaro
Colafelice, Valentina Nugent e Yansong Wang.
E grazie a Giulia Brolese che ha
curato la grafica.
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scusi Prof. Cassi la varietà di patata "salad blue" così chiamata per la sua polpa blù, è originale o frutto di modificazioni? Grazie anticipatamente per la risposta.
RispondiEliminapino
Caro Pino,
RispondiEliminale cosiddette "patate blu", come la Salad Blue e la Cream of the Crop, non sono senz'altro OGM, quantomeno perché la loro coltivazione è documentata a partire dai primi del '900. Stando alle testimonianze storiche, pare che siano state ottenute da coltivatori scozzesi e irlandesi, forse anche attraverso incroci.
Sfortunatamente, però, sono più viola che blu...
Nell'orto del laboratorio le coltiviamo da tre anni e abbiamo verificato che anche le condizioni di illuminazione influiscono tantissimo sul colore effettivo. Un'ipotesi accreditata suggerisce che queste varietà derivino da esemplari originari degli altopiani delle Ande, dove le patate avrebbero sviluppato la loro particolarissima pigmentazione per proteggersi dai raggi ultravioletti.
La cottura le rende un po' più blu, ma finora, mi è capitato una sola volta di mangiare patate veramente blu. Precisamente 5 anni fa da Arzak. Joaan Mari mi ha garantito che non c'erano trucchi o coloranti, e gli credo.
Si tratta comunque di un'esperienza piuttosto rara.
Qualche altro cibo naturalmente blu, in verità, l'ho mangiato. Non dimenticherò mai i gamberetti blu (crudi) di FM a Granada.
Esistono anche fiori commestibili blu, come il fiordaliso.
Come noterai, non sono propriamente cibi comuni, ma, in qualche modo, "l'eccezione che conferma la regola". L'esperienza quotidiana ci spinge sempre a stupirci un po' di fronte al blu commestibile.
Molti anni fa sperimentai un risotto con la banana: fatto il soffritto, aggiungevo la banana frullata e la facevo cuocere per un po'; una volta la banana è rimasta, senza mescolare, un po' troppo sul fuoco: al centro è comparsa una macchia blu! (La banana col bollino blu!). Ho rimescolato e mangiato il risotto risultante - livido - e sono ancora vivo. Ma cosa ho mangiato?
RispondiEliminaCaro Sebastiano,
RispondiEliminale trovi tutte tu...!
Allora: senza rifare l'esperimento, ovviamente, non posso darti una risposta certa. Ma, ragionando teoricamente, sono portato a pensare che lo zolfo contenuto nella cipolla (o porro, o scalogno, come piace a Cracco...) e il rame, di cui è ricca la banana, abbiano formato solfato di rame. Il colore era per caso simile a quello del "verderame" che si dà sulle viti?
E' passato tanto tempo, ma credo di poter dire di sì: un "bollino" centrale di un paio di centimetri, di un bell'azzurro come quello dei cristalli di "verderame". Il soffritto era di porro, olio (?)e burro, poi ammorbidito con brodo (su idea di Ave Ninchi). Dunque ho tentato di avvelenare me e un mio(adeguatamente preavvisato del fattaccio)amico?!?
RispondiEliminaTranquillo. Ammesso che fosse davvero solfato di rame, con una dose così bassa, non ti può succedere niente!
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