Federico, che ci segue dagli
antipodi, tra salsicce di coccodrillo e filetti di canguro, mi chiedeva, un
mese fa, di render pubblico l’elenco dei miei libri più amati. Compito troppo
difficile e insidioso, per poter esser svolto in poche settimane. Non mi
perdonerei mai di far torto a uno solo di loro, scordandolo. I libri sono tanto
importanti e vanno trattati con rispetto. Proprio per questo, però, ne parlo
sempre volentieri, e mi è venuta la tentazione di rispolverarne ogni volta
qualcuno. Un po’ come faceva Montalbán, bruciandoli nel caminetto di Pepe
Carvalho…
Una notizia, di cui vi parlerò
più avanti, mi ha spinto ad estrarre dagli scaffali un altro di miei amati. Si
intitola Art and visual perception: a
psychology of the creative eye, di Rudolf Arnheim, tradotto in italiano con
il titolo, ridotto e riduttivo, Arte e
percezione visiva. E’ un grande classico della psicologia della Gestalt,
che mi sta estremamente simpatica, perché ha riscoperto Aristotele prima degli
scienziati. Il suo stracitato motto, “Il
tutto è maggiore della somma delle sue parti”, è preso pari pari dalla Metafisica. Ma, in realtà, si tratta di
una traduzione scorretta delle parole di Kurt Koffka “Il tutto è diverso dalla
somma delle sue parti”. Parole che precedono di decenni il celebrato More is
different (‘Di più’ è diverso) di Philip Anderson, l’articolo che ha spiegato
agli scienziati che, per capire il mondo, non basta smontarlo in pezzetti
sempre più piccoli.
L’innamoramento è vecchio di
quattro anni. Stavo preparando il mio intervento per l’edizione 2009 di Diálogos
de Cocina. Il compito era come sempre arduo, perché sono gli organizzatori ad
assegnarti il titolo. Dopo qualche trattativa eravamo arrivati ad un
compromesso: “Emozioni, sensi e proprietà oggettive degli alimenti”. Ma ero
talmente affascinato da quel libro che, parafrasandone il titolo, volevo
scegliere per la mia conferenza “Gastronomia e percezione sensoriale:
psicologia del palato creativo”.
A distanza di tempo, sono ancora molto legato
a quel congresso e a quella “ponencia”. La prima metà del 2009 è stata il
culmine della grande stagione della gastronomia d’avanguardia. Il momento della
piena consapevolezza, dell’equilibrio, della riflessione. Sentivamo di essere saliti
veramente in alto. Poi, con l’estate, arrivò la stramaledetta crisi.
Rapidamente il mondo che avevamo costruito iniziava a crollare. Congressi
annullati, eventi spostati, ristoranti che chiudono, altri che si
ridimensionano. Due anni dopo, la chiusura del Bulli sancirà la fine d’un’epoca.
Ma, allora, era tutto diverso.
Si discuteva del ruolo che poteva
avere la scienza nell'alta cucina, che, mai come prima, si era fatta arte. Due
anni prima Ferran era stato invitato a Documenta,
e il mondo artistico aveva riconosciuto ufficialmente la gastronomia come sua
parte integrante. In quel contesto, vivo e stimolante, il mio intervento era
provocatorio. Analizzavo il legame tra le proprietà fisico-chimiche del cibo e
le sensazioni ed emozioni che suscita. Mostravo che quel legame è talmente
flebile e indiretto, da rendere la cosiddetta analisi sensoriale un’inutile
necessità. (Mi perdonerete l’ossimoro… ma da quando Simone Ferriani, che è un
grande esperto di imprenditorialità, mi ha detto di pensare la stessa cosa del business plan, mi sento in ottima
compagnia).
L’idea fondamentale è che la
percezione sensoriale risulta dall'interazione dell’organismo con tutto l’ambiente
in cui è immerso. Il cibo è uno dei protagonisti di questo intorno, ma non è l’unico.
E lo stesso cibo, in situazioni diverse, produce stimoli differenti. Ma anche
il degustatore è un fattore estremamente variabile. Cambia il suo stato d’animo,
ma anche la sua forma fisica (avete provato a mangiare con il raffreddore?).
Ma, anche limitandoci al solo cibo, i diversi ingredienti interagiscono
sensorialmente in modo complesso, per nulla riducibile alla “somma” delle
singole sensazioni.
Prendete un liquido acido. Un succo di limone acerbo. Aggiungete
zucchero. L’acidità in senso chimico non cambia, il pH rimane inalterato. Ma in
bocca l’acidità viene attenuata, fino a scomparire. E’ per questo motivo, tra l’altro,
che si aggiunge lo zucchero alla passata di pomodoro. D’altra parte, la Coca
Cola ci appare fondamentalmente dolce. Ma il suo pH è talmente basso che, a
tempi del liceo, la usavamo per corrodere il marmo. Non si tratta di una proprietà
specifica della molecola di saccarosio. Accade con tutti gli ingredienti dolci,
inclusi gli edulcoranti sintetici.
In realtà, non occorre limitarsi
al senso del gusto. I profumieri sanno bene che vaniglia e bergamotto, fiutati
insieme, senza produrre nessuna reazione chimica, danno un odore simile a
quello dell’ambra. E, quando studiavo al conservatorio, rimasi affascinato dal
fenomeno del terzo suono di Tartini: due note suonate insieme con potenza
sufficiente, generano, nel nostro orecchio, ma non nell'aria una terza nota
con frequenza pari alla differenza delle loro frequenze.
Per non parlare della sinestesia
dei sensi: l’aroma di vaniglia aumenta la sensazione di dolcezza, quello di
limone la sensazione di acidità…
Il discorso sarebbe lunghissimo e
andrebbe ripreso, a puntate. Ma il succo di tutto è che i nostri sensi non sono
strumenti di misura, nel significato scientifico del termine. Se ammettiamo che
esiste una realtà oggettiva, allora i nostri sensi non sono i mezzi più idonei
per coglierla. Niente di nuovo: è proprio per questo che si siamo inventati
strumentazioni precise e sofisticate. E poi, parliamo di illusioni ottiche, di illusioni
acustiche…
E’ proprio dall'illusione dei
sensi che nasce la magia dell’arte.
Il palato del gourmet non
analizza, si lascia sedurre. O, meglio ancora, analizza una verità sensoriale,
che non coincide con la realtà fisica, così come la intendiamo comunemente.
Tutte le arti parlano ai sensi,
prima ancora che alla ragione. Anche la pittura, che sembra riprodurre
fedelmente il mondo, gioca sull'illusione “Il mistero della rappresentazione
prospettica – scrive il nostro Arnheim - sta nel fatto che fa sembrare giuste
le cose facendole sbagliate”.
Ma, finora, abbiamo parlato di
piccoli camuffamenti. La piena consapevolezza di come i sensi possano letteralmente
stravolgere le proprietà oggettive del cibo, mi colse intorno alla metà degli
anni ’90, quando, Fritz Blank mi fece provare il frutto dei miracoli. Provare, non assaggiare. Perché le bacche rosse
di Synsepalum dulcificum (questo è il
suo nome scientifico) non sanno di niente. Solo che, dopo che le hai mangiate,
per un’ora buona, tutti le bevande e i cibi acidi che assumi ti sembrano
incredibilmente dolci. Non si tratta di un attenuamento dell’acidità, ma di un’autentica
trasformazione percettiva dell’acido in dolce: l’ho provato di persona con
soluzioni concentrate di acido citrico.
Il frutto dei miracoli è
originario dell’Africa occidentale e noto alle popolazioni indigene da tempo
immemorabile. La prima documentazione ufficiale del suo utilizzo viene dall'esploratore francese Reynaud Des Marchais, che racconta di averne visto consumare le bacche
prima dei pasti nel suo viaggio del 1725.
Le sue proprietà “miracolose”,
oggi, si possono considerare fondamentalmente spiegate. La polpa di Synsepalum dulcificum contiene una glicoproteina,
che prende proprio il nome di miracolina,
in grado di legarsi alle papille gustative e di modificarne il
comportamento, stimolando i recettori del sapore dolce quando viene a trovarsi
in ambiente acido.
In Italia il frutto dei miracoli
è poco conosciuto. Ma, in Giappone, è già popolarissimo. Dal 2005 a Tokio
furoreggia il Miracle Fruit Cafè, dove si possono stregare i sensi assumendo
i frutti di miracoli prima di degustare cibi acidissimi.
Nel mio laboratorio, da diverso
tempo, tengo sempre in dispensa qualche scatola di pasticche di miracolina, che
mi procuro, ovviamente, all'estero A volte, ci divertiamo ad assaggiare vini
acidissimi dopo aver ipnotizzato i sensi, con risultati ogni volta
sorprendenti.
Ma il frutto dei miracoli ora è
destinato a diventare popolarissimo anche in occidente. Da oggi, 1 gennaio
2013, è finalmente in commercio il nuovo libro di Homaro Cantu, il pirotecnico
chef molecolare di Chicago, intitolato The Miracle Berry Diet Cookbook. Si
tratta di un vero e proprio ricettario di preparazioni ipocaloriche che, dopo
aver assunto pasticche di miracolina, sono dolcissime al palato.
L’idea di Homaro è di creare una
vera e propria alternativa alla cucina dolce, in chiave dietetica.
In realtà, le cose non sono così
semplici.
Lo zucchero, in pasticceria,
riveste molto spesso un ruolo strutturale, e non solo dolcificante. Avete mai
provato a fare una meringa con l’aspartame? E poi… come convenivo qualche
settimana fa con un amico medico, mangiare acido non fa così bene. L’acidosi è
una delle cause principali della cellulite. Sarebbe curioso vedere le signore
salutiste, che fuggono inorridite dai carboidrati, cadere rovinosamente nella
trappola degli inestetici cuscinetti…
In tutta questa euforia di
novità, qualche giorno fa, guardavo sullo schermo del computer la copertina del
libro di Cantu. Mi si avvicina Yansong, la giovane recluta cinese del laboratorio,
e si informa. Poi, con un sorrisino tutto orientale, mi dice: “Nuovo? A me lo
davano da bambino per farmi prendere le medicine!”.
Non si finisce mai di imparare…
Buon Anno!
Prodotto interessante questa miracolina.
RispondiEliminaIn pratica l'idea è quella di appagare il desiderio di dolci con pietanze molto meno caloriche.
Mi chiedo però: il desiderio di cibi dolci si appaga solo a livello di gusto o anche con qualche effetto metabolico?
Inoltre, anche se non avendo visto le ricette non posso giudicare, l'aspetto visivo non è importante?
Voglio dire che l'effetto di uno spicchio di arancia o di limone che al palato risulta dolce non è esattamente come quello di una fetta di torta al cioccolato.
Buon anno!
Nicolò
Buon Anno Nicolò!
RispondiEliminaIl desiderio di dolci, ormai, è indipendente dalle nostre esigenze fisiologiche. Altrimenti non avremmo problemi di diete! Per appagare quella voglia, che eccede i bisogni nutrizionali, ci siamo inventati gli edulcoranti artificiali. Al di là delle differenze gastronomiche, anche il loro effetto sull'organismo è diverso. Gli zuccheri veri, in misura diversa, fanno crescere la glicemia, il che provoca un aumento d'appetito, innescando un terribile circolo vizioso. Non a caso, siamo soliti prendere il dessert a fine pasto, quando nel nostro stomaco non c'è più spazio...