Domattina ci sarà la cerimonia.
Il Presidente dell’Académie Internationale de la Gastronomie mi consegnerà il
Grand Prix de la Science de l’Alimentation.
La motivazione, che già compare sugli annali,
recita così: “Pionnier en recherches scientifiques culinaires”.
Mi diverte quella parola. Non avrei
mai pensato di diventare un pioniere, nemmeno da ragazzino, quando guardavo i
film western. Piuttosto, mi sono sempre considerato un hacker. Un hacker della
cucina. Ovviamente, non nel senso di “pirata”, come insiste a suggerirmi il
demenziale correttore di Word. L’hacker, nel senso originale e più puro
del termine, è colui che, trafficando e smanettando, scopre strade nuove
ed escogita soluzioni inaspettate.
Mi sono talmente innamorato di
questa definizione che, da un anno a questa parte, inserisco “Cooking Hackers” nel
titolo tutte le conferenze sulla storia della cucina molecolare. E anche domani
non verrò meno all’usanza. Il programma
è già stampato: “Cooking hackers: l’epopea della cucina molecolare”.
Scorro sullo schermo del computer
il PowerPoint che ho usato l’altro giorno a Napoli. Mi soffermo su una pagina
con tante foto. Sono volti di persone. Ci sono anch’io. Sono i pionieri, con
dieci anni di meno. Gli hacker della cucina. I miei amici…
C’eravamo quasi tutti, a Murcia,
nel 2004. Nasceva il grande movimento. La scuola spagnola e la scuola di Erice
si fondevano in un’unica ondata di entusiasmo. Erano iniziati gli anni
ruggenti. Erano gli anni delle coppie cuoco scienziato. Le riguardo una ad una
sulla diapositiva. Pierre ed Hervé. Heston e Peter. Andoni e Raimundo. Ferran e
Pere. Ettore ed io. Guardo la fila di sotto, quella degli scienziati. Come
eravamo diversi tra noi... Due fisici, due chimici, un medico.
Hervé, con l’immancabile colletto
alla guru, per evitare –mi diceva- di dover abbinare e annodare le cravatte. Alla
fine delle grandi cene, quando riempivamo la sala e le bottiglie erano vuote,
intonava “La bataille de Reichshoffen” e faceva saltare i commensali a
cavalcioni delle sedie…
Peter, l’uomo dei pinguini. Chi non
l’ha conosciuto quasi non ci crede. La passione sua e di Barbara per gli
sfeniscidi è tanto viscerale che non li ho mai visti senza un vestito con un
pinguino disegnato sopra (guardate la foto…).
Raimundo. Illustre ordinario di
anatomia patologica e critico gastronomico inarrivabile e impietoso. Un mangiatore
d’altri tempi. Un peso massimo. Che nostalgia dei nostri lunghi viaggi. “Siamo
qui per fare turismo gastronomico” - diceva alla reception. E, alla sera, la serie
interminabile di gin tonic…
Pere, che va a cena al Bulli,
parla con lo chef, entra in cucina, gli risolve in pochi minuti il problema
della sferificazione del succo di mela e viene assunto… Era nel mio laboratorio
in quel giorno di primavera del 2008, quando Santi partì all’attacco di Ferran
e dei molecolari. Mi ricordo ancora le telefonate convulse: “E’ impazzito! E’
impazzito!”…
Tante volte mi sono chiesto cosa
avevamo in comune, al di là della
passione per il cibo. Ma ora, riguardando quei volti familiari, è come se tutto
mi diventasse chiaro.
Nessuno era giovanissimo, anzi.
Eravamo tutti già piuttosto maturi, sia d’anni che di professione. Tanta
esperienza e quel fatidico posto fisso che il ricercatore insegue a lungo come
un miraggio. Nessuno di noi, prima d’allora, si era occupato di cibo per
mestiere. Facevamo tutti altri mestieri. Facevamo ricerca di punta in altri
settori, che nessuno aveva mai pensato di collegare alla cucina. D’improvviso, scoprimmo
di avere in mano strumenti potentissimi
che gli studiosi tradizionali di cibo non conoscevano ancora. E non dovevamo
usarli nei modi tradizionali. Potevamo permetterci di fare gli hacker…
In poche parole: eravamo
meravigliosamente e infinitamente liberi.
Liberi dai condizionamenti della
cosiddetta “comunità scientifica”.
Liberi dalla necessità di pubblicare i
risultati.
Liberi dalle scartoffie accademiche.
Non dovevamo compilare moduli
interminabili per chiedere fondi di ricerca. Le cucine dei grandi ristoranti ci
mettevano a disposizione tutto ciò che potevamo desiderare.
Non dovevamo rendere conto di quel
che facevamo a referee, direttori di ricerca, colleghi puntigliosi. Non c’era il
burocrate di turno a valutare il tuo lavoro. Il nostro pubblico era diventato
improvvisamente un altro: quello delle migliaia
di cuochi e gourmet che accompagnavano con entusiasmo e passione la più grande
rivoluzione gastronomica del secolo.
Era un sogno.
Entravamo dietro le quinte di uno
spettacolo, che affascinava una moltitudine di persone appassionate e
competenti.
Ed eravamo tutti amici. Nessuna
rivalità. Ognuno ammirava il lavoro e le scoperte degli altri. Ci si raccontava
tutto, onestamente e liberamente. I pionieri non hanno bisogno di competere. La
terra da esplorare è sconfinata. Piuttosto, devono aiutarsi tra di loro, perché
sono pochi e sono soli. Non conoscevamo quella parola idiota che molti
politici, scienziati falliti, pii, teoreti, ti propinano come motore della
ricerca e del progresso: la competizione. L’unico vocabolo sensato per noi era
un altro: collaborazione.
Quegli anni di ricerca anarchica
e istintiva produssero più innovazioni di qualunque altro periodo della storia
della cucina. Non esistevano regole e protocolli. La conoscenza non era il
fine, ma il mezzo per arrivare il più lontano possibile, prima di quel salto
nel vuoto che ti porta nel terreno inesplorato. Che ti porta a fare l’esperimento
di cui, nel profondo del tuo cuore, ignori il risultato. Lontanissimi da quell'idea
di ricerca che hanno i finanziatori istituzionali, che ti chiedono di scrivere
un progetto in cui già prevedi quello che otterrai…
Col senno di poi, fu proprio il
tentativo di convogliare quell'ondata di novità informale nei canali consueti
della ricerca, a creare problemi e a segnare la fine di un periodo magico. Il
famigerato progetto INICON alla fine portò più danni che benefici. Ci guadagnarono
tanto le industrie, ma la cucina molecolare iniziò a perdere fascino. Uno dei
cuochi firmò un articolo su una rivista scientifica, insieme ad una schiera di
tecnologi. Un articolo goffo, su una delle sue creazioni più insignificanti. Ma
la colpa non era sua. Era di chi si illudeva di poter racchiudere, nel formato
angusto e stereotipato di un articolo scientifico, la forza dirompente e le
emozioni vive di una creazione d’alta cucina.
Torno, per un istante, con la
mente al presente. Penso ai miei studenti, dottorandi e borsisti, che devono
lottare e competere, sottoporsi al giudizio di impersonali commissioni, che li
valutano in base a numerini fantasiosi, che
il pirla di turno ha deciso di ergere ad indicatori oggettivi di valore e
qualità.
Non mi piace questo mondo, quest’idea
della scienza. Non è quella che sognavo.
Meglio tornare ai ricordi e
rituffarsi in quelle notti selvagge, dopo la chiusura delle cucine, con il gin
tonic che scorre a fiumi mentre si parla e si assaggia, mentre mettendo insieme
la microsteatosi e la teoria della percolazione scopriamo il segreto del foie gras sublime…
Cari amici degli anni ruggenti,
siamo stati davvero fortunati.
Noi sì che ci siamo divertiti!