Homo sum, humani nihil a me alienum puto.
Sono tornato
in laboratorio, dopo due mesi d’astinenza.
Da solo,
lungo i corridoi vuoti, con la mascherina sul volto, camminavo in un ambiente surreale.
Fuori, la gente che torna a vivere, i ragazzi che si incontrano, parlano,
ridono.
Dentro, il vuoto.
Le regole sono ferree: se la stanza non supera i 40mq, ci può lavorare solo una persona. Altrimenti, si può stare in due, non di più. Grazie al cielo, di laboratori ne gestisco quattro e i miei collaboratori riesco a distribuirli bene. Fissiamo i turni su Teams, tutto sotto controllo.
Ad essere ottimisti, potresti dire che lo scenario è lo stesso che trovi quando vai il sabato o la domenica: si entra con la scheda magnetica e non si incontra quasi nessuno. Ma, nei giorni di chiusura, di solito si va per le emergenze: a controllare che tutto sia a posto, a dare un’occhiata a un esperimento lungo. L’aspetto sconvolgente è che questa dovrebbe essere la nuova normalità. Per quanto tempo, non è dato saperlo.
Ma non si può continuare per sempre così.
Ci sono esperimenti che non puoi fare da solo. Atri che, in ogni caso, richiedono tanti occhi ad osservare. La ricerca vera non si fa schiacciando un bottone e registrando numeri e curve su uno schermo. Quando esplori l’ignoto, devi allertare tutti i sensi e confrontarti con i compagni d’avventura.
Dentro, il vuoto.
Le regole sono ferree: se la stanza non supera i 40mq, ci può lavorare solo una persona. Altrimenti, si può stare in due, non di più. Grazie al cielo, di laboratori ne gestisco quattro e i miei collaboratori riesco a distribuirli bene. Fissiamo i turni su Teams, tutto sotto controllo.
Ad essere ottimisti, potresti dire che lo scenario è lo stesso che trovi quando vai il sabato o la domenica: si entra con la scheda magnetica e non si incontra quasi nessuno. Ma, nei giorni di chiusura, di solito si va per le emergenze: a controllare che tutto sia a posto, a dare un’occhiata a un esperimento lungo. L’aspetto sconvolgente è che questa dovrebbe essere la nuova normalità. Per quanto tempo, non è dato saperlo.
Ma non si può continuare per sempre così.
Ci sono esperimenti che non puoi fare da solo. Atri che, in ogni caso, richiedono tanti occhi ad osservare. La ricerca vera non si fa schiacciando un bottone e registrando numeri e curve su uno schermo. Quando esplori l’ignoto, devi allertare tutti i sensi e confrontarti con i compagni d’avventura.
Per fare
lezione, devo tornare a casa.
All'inizio,
abbiamo provato a scrivere dispense d’emergenza, da leggere, discutere e poi
studiare. Poi è arrivato l’ordine delle videolezioni: da registrare, per provare
che stavamo facendo il nostro dovere. Con anni di televisione alle spalle, ho iniziato
a tremare: senza uno studio di registrazione, senza regia, senza montaggio…
veramente pensiamo di essere dei maghi che, in presa diretta, catturano per ore
l’attenzione del povero studente davanti allo schermo di un computer, magari in
un angolino risicato di una casa viva e rumorosa? Da ragazzi, si giocava a calcio
alla viva il parroco!. Ora, se tornasse in vita, Gianni Brera direbbe che
facciamo teledidattica alla viva il rettore!.
Ho iniziato
con brevi videopillole su YouTube, tastando la risposta degli studenti in chat.
Ma il coinvolgimento mancava. Allora ho osato la diretta in streaming. Tutto
sommato, sarebbe comunque stato meglio. Al secondo semestre, insegno Fisica
della materia soffice alla Laurea Magistrale in Fisica. Ho quattro studenti,
quest’anno: almeno posso vederli in faccia. Con tempo e pazienza abbiamo rotto
il ghiaccio. Abbiamo impostato un’attività sperimentale da fare a casa. Ognuno
s’è costruito la strumentazione necessaria, ha girato i video degli esperimenti,
ha raccolto i dati. Abbiamo discusso e ragionato insieme.
Non sono
certo allergico alle innovazioni. Da qualche anno insegno ad usare lo smartphone
come strumento di misura; insegno a fotografare, filmare, analizzare, tutto
quello che ci capita sotto gli occhi di interessante.
Eppure, mi
manca ancora qualcosa di fondamentale.
Quindici
anni fa, mentre scrivevo il Manifesto delle cucina molecolare Italiana,
avevo ben chiaro quale dovesse essere il rapporto tra vecchio e nuovo:
1 Ogni novità deve ampliare, non distruggere, la tradizione gastronomica italiana.
Mi piace
molto l’idea di queste attività domestiche da condividere in rete. Mi piace l’idea
di addestrare gli studenti alle videoconferenze. Trovo utilissimo insegnare ai
miei ragazzi come realizzare un video degno di pubblicazione in rete: il nuovo
linguaggio della comunicazione ormai è questo, lasciamo Powerpoint alle vecchie
generazioni.
Eppure, mi
manca l’aula, mi manca la presenza reale, mi manca la condivisione di uno
spazio fisico comune.
La didattica
non è fatta solo di immagini e suoni. Si basa su un’empatia che nasce dalla condivisone.
Condividere un’aula è vedere gli oggetti sotto la stessa luce, respirare la
stessa aria, provare caldo o freddo insieme. Scambiare uno sguardo, una parola
bisbigliata. Vivere una quotidianità comune, conoscersi attraverso i gesti e i
movimenti più banali, vestiti ed accessori. Parlare, soprattutto, di mille
cose, al di fuori dello schema rigido di una lezione.
Insegnante,
figlio di insegnanti, sono nato e cresciuto nel mondo della scuola. Mio padre
insegnava ai geometri. Mia madre, all'istituto magistrale, ha
insegnato la matematica a generazioni maestre della mia città. In quella
vecchia scuola, in cui la didattica era qualcosa di serio e quasi sacro, si ripeteva
come un mantra una frase apparentemente ingenua:
“Per insegnare il latino a
Pierino,
devi conoscere il latino e devi conoscere Pierino”.
devi conoscere il latino e devi conoscere Pierino”.
Di Pierini
ne ho conosciuti qualche migliaio, nei miei lunghi anni di insegnamento. Ho
iniziato al principio del 1987, alle scuole superiori: a pochi mesi dalla
laurea, i miei genitori mi spinsero a provare subito il lavoro a cui mi sentivo
chiamato. Ho provato tante scuole e poi l’università. I miei Pierini, di anno
in anno, cambiavano modo di vestire, di parlare, di divertirsi. Poterli
osservare da vicino è stato incredibilmente importante per capire come
rivolgermi loro, per riuscire a farmi capire, cambiando di volta in volta
parole e modi. Mi adattavo a Pierino e al mondo intorno. Si alternavano le
stagioni, giorni di pioggia e giorni di sole. Sembra banale, ma il tempo fuori
ci influenza: con la pioggia o col sole, parliamo e recepiamo diversamente. L’importante
è essere sintonizzati sulla stessa modalità. Cosa molto difficile, se io parlo
in video da Parma, mentre il mio studente Erasmus mi segue da Francoforte.
È un’emergenza,
ci ripetiamo. Le emergenze si superano e servono ad imparare e migliorarsi. È
un’emergenza e ce la stiamo cavando.
Poi, però,
si fanno sempre più ricorrenti le voci di una proroga al prossimo anno
accademico. Chi dice che si continuerà così al primo semestre. Chi teme anche
al secondo. Chi auspica, entusiasta, che questa diventi la nuova normalità.
Ed io
comincio a sudare freddo, perché al primo semestre ho il corso a Scienze
Gastronomiche, con più di trecento studenti. Vederli in faccia, anche a
distanza, è impossibile. Sarà una recita davanti a una telecamera. Uno
spettacolo teatrale senza pubblico in sala. Senza il feedback degli sguardi e
dei piccoli gesti che ti indirizzano durante il tuo lungo monologo. Chi ama il teatro
sa quanto perde quando viene filmato. Chi ama il cinema sa che il suo linguaggio
è altra cosa. Se continua così, dovremo spostarci nella direzione del cinema. Accettare
l’ossimoro di una lezione senza studenti. Che è come il caffè decaffeinato, la
birra analcolica, il pesto senz’aglio. Si può fare, certo, ma resta un blando
surrogato. Nelle emergenze si può accettare, in mancanza di meglio, come
abbiamo accettato il delivery dal ristorante stellato. Ma la normalità è
riempire sale e tavoli, aule e banchi.
A meno che
questa non sia solo la punta dell'iceberg. L’ultimo atto di quella strisciante
tendenza a spersonalizzare la didattica, ad inquadrare in schemi precostituiti
il rapporto studente docente. Ad illudersi che una lezione ben fatta si possa
registrare e riproporre nello stesso modo a chiunque. Quella tendenza che, sotto
le spoglie di una seria e scientifica oggettività, tende a disumanizzare l’insegnamento
e a irregimentarlo in codici prefissati, che fanno qua e là capolino con termini
dal suono sinistro, come Syllabus e Indicatori di Dublino.
L’altro
giorno un vecchio amico e collega mi ha confessato che, se le cose andranno
così, chiederà il pensionamento anticipato. Gli ho detto che non deve tirarsi
indietro. Che è proprio la generazione che ha sperimentato l’università vera a dover
continuare a vivere e lottare.
Se la deriva
spersonalizzante continuerà ad imperversare, organizzerò lezioni clandestine
nei prati o nelle sale fumose delle bettole di periferia.
Non saremo
complici di chi vuol trasformare l’università, da culla di grandi idee, progetti
e sogni, in un triste diplomificio a distanza.